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 "Un paese è una frase senza confini"

 

Frontiere Letterarie

L’oblò

In quel periodo abitavo in un seminterrato, una soluzione economica per una lavoratrice giovane e single. Ricordo ogni dettaglio della mia “scatola”, del primo vero ambiente che potei chiamare “casa”, dopo una serie ininterrotta di stanze singole condivise con studenti più o meno nevrotici.
Nonostante fosse una cantina adibita ad appartamento, era un alloggio piuttosto curato, con i mobili in stile shabby di legno, punti luce un po’ ovunque per sopperire al buio, che da quel momento sarebbe stato mio unico e solo coinquilino.
Sul soffitto del soggiorno c’era una specie di botola circolare, sembrava l’oblò di una nave e di sera mi divertivo a osservare le ombre dei piedi degli inquilini di sopra. La stanza corrispondente era il bagno, lo capivo dal rumore di scarico che scandiva le ore.
Da lì filtrava, di giorno e di notte, una luce pallida che mi dava ancor più l’impressione di vivere nella stiva di una nave, in una città senza mare come Roma. Però mi sentivo in armonia.
Sopra viveva la famiglia Ostuni, proprietaria del mio alloggio. Avevo conosciuto solo lui, il medico, il giorno che firmai il contratto di affitto. Era un omone stempiato, la luce tenue che filtrava dall’oblò si rifletteva sulla sua cozza pelata, facendolo somigliare a un lampione. Mi parve strano, di solito i proprietari di casa  tengono a mostrarti l’agio in cui vivono e t’invitano nei loro salotti piccolo o medio borghesi a mettere la firma, mentre la stipula del contratto avvenne nel seminterrato. Comunque, non ci pensai più di tanto, entusiasta com’ero per il mio primo vero contratto alla redazione di Roma Oggi e ansiosa di sistemare le beghe burocratiche dell’appartamento quanto prima.
La sera mi sedevo col computer sul tavolino di compensato e restavo a lavorare ai miei pezzi fino a tardi, spesso distraendomi guardando l’oblò e contando le volte che gli Ostuni avevano bisogno del bagno. Certe sere erano tranquille, altre più movimentate, mi chiedevo se loro pensassero mai al fatto che avevo uno spioncino sulla loro intimità. Mi chiedevo anche il perché di quel particolare collegamento, forse in origine il mio seminterrato doveva essere un tutt’uno con la casa, un ripostiglio o una cantina dove tenere le cose in disuso.
Una volta incontrai la moglie e il bambino del proprietario sul pianerottolo. Erano circa le otto del mattino, io scappavo in redazione, di fronte a me comparve una donna piccola, capelli a cespuglio, gote pronunciate, labbra con gli spigoli all’ingiù in un’espressione di disgusto.
Il bambino era di una bruttezza rara. Nel complesso somigliava alla madre, ma era più simile a un topo che a un ragazzino di sei o sette anni. Capii subito che doveva soffrire di qualche dismorfismo e di qualche ritardo mentale perchè grugniva, strillava, faceva dei versi di disappunto senza formulare parole, la madre con un braccio lo trascinava, con l’altro trainava un piccolo zainetto con rotelle.
Ci salutammo come perfetti inquilini di uno stesso stabile, li feci passare avanti, c’era qualcosa di coercitivo nel modo in cui la madre trascinava il figlio, immaginai che fosse perché bambini così sono difficili da gestire e dotati di una forza fuori dal comune.
Per tutta la giornata, in redazione, al supermercato e persino durante la lezione di Pilates, non potei togliermi dalla testa l’immagine di quel bambino-roditore. Non sapevo cos’era a spaventarmi, se l’aspetto del bambino in sé, l’atteggiamento coercitivo della madre o il recondito timore che, un giorno, potesse capitare anche a me una sventura del genere. Perché ritrovarsi un figlio così era di certo una sfortuna. Ero nell’età in cui il pensiero di una futura gravidanza mi ossessionava.
Provavo a scacciare questi pensieri, mi sentivo in colpa, ero stata educata con il precetto che tutti i bambini sono belli perché anime di Dio. Mi sentivo in colpa per il disgusto che provavo, ma più lo scacciavo e più quello mi rodeva dall’interno. Figuriamoci a sua madre.

Tutto sommato, le settimane nel mio nuovo alloggio scorrevano bene. Riuscivo a farmi assegnare sempre più articoli e avevo imparato a gestire la mia nuova vita autonoma, di ventinovenne piena di curiosità per il mondo.
Una sera, troppo stanca per lavorare, ero appollaiata sul biposto in soggiorno e guardavo in maniera distratta un documentario sulla sperimentazione dei cosmetici sugli animali. Era un documentario di denuncia, qualcosa di poco interessante, finché non mi passò davanti agli occhi il volto di un topo con il naso spiaccicato sulle sbarre di una gabbia. Disgustata, spensi la tv. Mi alzai per spostarmi in camera da letto, decisa a terminare la giornata.
In quel momento sentii un latrato, ci misi qualche secondo a capire che si trattava del bambino di sopra. Alzai la testa e vidi i suoi piedini attraversare veloci l’oblò, seguiti da passi pesanti di pantofole su caviglie strette. Ancora un grido strozzato e poi il rumore dello sciacquone.
Mi chiesi se non fosse il caso di salire e chiedere se andasse tutto bene, ma ero troppo stanca e l’indomani dovevo essere in redazione alle otto. Mi versai un bicchierino di amaro e andai a dormire.
Col passare dei giorni, i pensieri sulla stranezza di quanto avessi percepito quella sera sfumarono, mi feci assorbire totalmente dal lavoro, di giorno ero sempre in giro per la città per gli articoli più disparati, dalla politica alla cultura.
Un sabato di fine d’ottobre ero a fare jogging al parco degli acquedotti, le foglie scricchiolavano sotto ai piedi come cartoncini colorati. Avevo fatto appena due giri, quando intravidi la signora Ostuni con il figlio passeggiare nella mia direzione. In quel contesto di natura, il bambino mi parve ancor più simile a un roditore. «Buongiorno», dissi a sua madre.
«Ah ciao, sei l’inquilina di sotto», mi disse la donna, indossava dei pantaloni di tuta con le caviglie scoperte, quelle caviglie...
«Sì, non ci siamo mai presentate. Sono Alessandra».
«Marianna», fece lei senza darmi la mano.
«Il signor Ostuni come sta? È da un po’ che non lo vedo, volevo pagargli la prima bolletta della luce».
«Mio marito è fuori città per un convegno».
Non aveva molta voglia di fare conversazione e ne fui sollevata, non vedevo l’ora di fuggire via, non riuscivo a fissare il bambino e se fossimo rimaste più a lungo, Marianna si sarebbe accorta che evitavo di guardarlo. Dopo un saluto formale, ripresi la mia corsa.
Quella sera non avevo voglia di uscire, i primi freddi m’impigrivano. Ordinai una pizza e mi misi al lavoro per la consegna del lunedì.     A mezzanotte gli occhi quasi mi si chiudevano, mi spostai sul biposto e lì mi accucciai. Mi addormentai subito, ancora vestita.
Fui svegliata da un tremendo trambusto al piano di sopra, alzai lo sguardo, di nuovo ombre di piedini e caviglie, i versi ormai familiari del bambino. Non sapeva parlare, ormai era chiaro, quei grugniti erano il suo modo di esprimersi.
Questa volta, più seccata che spaventata, decisi di salire a dare un’occhiata.
Bussai alla porta, un’incisione dorata recitava Famiglia Ostuni.
Marianna mi aprì, contraendo il volto in una smorfia di sorriso.      Si scusò per il trambusto, mi spiegò che il piccolo soffriva di gastrite, quindi spesso era costretta ad accorrere in bagno per assisterlo. Mi promise di usare più delicatezza.
Per una settimana non sentii nulla. Mi chiedevo se il merito fosse davvero di Marianna o del ritorno del signor Ostuni, che comunque non avevo ancora re-incontrato.
Mi sembrava tutto piuttosto strano, ero stata anche cresciuta, da mia madre, con l’assunto che “ognuno, in famiglia, porta la croce sua” e avevo il sospetto che quella donna ne portasse una davvero pesante. Col trascorrere delle settimane, quell’anfratto così buio e solitario mi angosciava sempre di più, avevo nostalgia dell’università e delle feste tra amici a cui, ormai, non avevo più l’energia di partecipare. Una notte feci uno strano sogno.
Sognai di guardarmi allo specchio e vedere la mia faccia deformata nelle sembianze di un topo. Il topo ballava e si divertiva, facendosi beffe di me, inchiodata a una scrivania.
Il lavoro si faceva sempre più stressante e cominciai ad avere i primi dubbi sulla scelta di quella carriera così faticosa e poco remunerata. Stavo perdendo tutti gli amici, ero sempre troppo stanca per uscire la sera, così come successe quella domenica.
Avevo deciso di fare le pulizie, per non doverci pensare durante la settimana. Iniziai con lo spolverare, operazione difficile dato che i mobili in stile shabby la nascondevano perfettamente. Pensai di dare una passata anche sull’oblò. Salii su una sedia e cominciai a lucidarlo, col viso inondato dalla solita luce pallida ed esile. Ombre di piedi non ce n’erano, forse gli Ostuni non erano in casa perché quella era stata una giornata piuttosto silenziosa.
Scesi dalla sedia e presi l’aspirapolvere. La passai con cura in ogni angolo, mentre canticchiavo tra me e fumavo una sigaretta, divertendomi ad aspirare via la cenere che cadeva. Terminato il lavoro, mi guardai intorno: tutto era pulito e scintillante, il mio anfratto non mi era mai sembrato più accogliente.
Fu allora che sentii un tonfo.
D’istinto alzai gli occhi sull’oblò, adombrato da una macchia scura. Ripresi la sedia, mi alzai sulle punte per vedere meglio. Una piccola testa in una chiazza di sangue mi fissava. Una piccola testa dai lineamenti di roditore. 
Prima di uscire per sempre da quel seminterrato, la mia prima vera casa, restai un attimo a contemplarlo: vuoto, immacolato, così come lo avevo visto la prima volta. Qui ero nata di nuovo. Qui avevo amputato la mia infanzia, così come la signora Ostuni aveva decapitato quel figlio indesiderato.

 

Ornella Sabia
(Scrittrice)

 

 

Ascolta il testo con la voce di Monica Ambrosecchia

 

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