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 "La poesia in quanto tale è elemento

costitutivo della natura umana"

 

InCanto Dantesco

Dante: la musica delle stelle, l’armonia del mondo

  

Siamo soliti designare con “armonia” una consonanza e un accordo tra parti diverse; etimologicamente il vocabolo, diretta traslitterazione dal greco ἁρμονία, deriva da una radice indoeuropea AR- che significa “adattarsi, connettersi, collegarsi” e alla quale rimonta l'origine di parole molto significative, tra cui ricordiamo arithmòs (il numero), arto (il braccio, cfr. l’inglese arm) e arte (tramite il latino ars).
Per gli antichi, dunque, e per noi moderni, l’armonia è quella calibrata fusione delle singole componenti di un insieme, tale da rendere perfetto l’intero. L’armonia, insomma, è il segreto della bellezza. Dante stesso, nel Convivio, così chiosava: «Quella cosa dice l’uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento» (Conv. I, 5).
Ne discende che tutto ciò che è bello è retto dall’armonia delle parti: il corpo umano è il prodotto di una “mirabile armonia” (Conv. IV, 25) di anima e corpo, una frase ben composta si regge sulla contrappuntistica organizzazione dei suoi sintagmi, al punto che anche i vocabili più aspri, se correttamente giustapposti ad altri più tenui e levigati, pulcram faciunt armoniam compaginis»(“rendono bella l’armonia dell’insieme”, De Vulg. Eloq. II, 7 D).
In Dante, tuttavia, come in tutto il Medioevo, il significato prevalente del termine afferiva alla tecnica della composizione musicale. Non è chiaro se il poeta intendesse con armonia proprio la scienza musicale che studia le relazioni tra i suoni e le voci nella loro simultaneità (significato moderno che nasce con il Traité de l’harmonie di Jean-Philippe Rameau del 1722), o allargasse il significato sino a comprendere l’arte del contrappunto (cfr. Par. VIII, 16-18), ma certamente per lui armonia indicava una musica composta con riuscita rispondenza delle parti.

Che la musica fosse scienza razionale basata su ordine e rapporti matematici lo testimonia, non a caso, il suo inserimento nelle arti del Quadrivio, le scienze esatte che erano alla base della formazione dell’uomo, insieme ad astronomia, aritmetica e geometria. Come scriveva Boezio, autore ben noto a Dante: «Musica considerat sonos non in quantum sunt soni, sed in quantum sunt secundum numeros proportionales» (Mus. I, 7).
Non è quindi un caso che proprio la musica dell’Universo, e più precisamente il suono emesso dalle stelle, costituisca l’espressione più compiuta della armonia che vige nel mondo. Il pedagogista latino Quintiliano ricordava che per gli antichi il mondo era retto da un criterio razionale, e che tale ordine era stato imitato poi dagli strumenti musicali (Inst. Orat. I, 10), così come Vitruvio raccomandava l’impiego di rapporti armonici negli edifici su imitazione di quelli musicali.
La prima volta che Dante fa esperienza diretta della musica celeste è nel cielo della Luna, all’inizio del suo viaggio nel terzo regno (Par. I, 76-81):


Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.


Come i commentatori hanno rimarcato, al v. 78 l’armonia che temperi e discerni è una dicitura che afferisce alla sfera tecnica della musica: se il temperare designa l’accordatura dello strumento a corde, il discernere allude alla distinzione che Dio crea tra i cieli, assegnando a ciascuno di essi un suono differente.
Come mai i cieli producono questo suono? La teoria dell’armonia delle sfere celesti era di origine pitagorica ed era stata rivalutata da Platone nel Timeo; Aristotele nel De Coelo la riteneva assolutamente inconcepibile, e con lui Alberto Magno e San Tommaso. Essa arriva a Dante sicuramente attraverso un passo (V, 18) del ciceroniano Somnium Scipionis (prova ne sia che il testo latino impiega gli stessi verbi temperare e distinguere), e poi ancora per mezzo di Macrobio e soprattutto di Boezio (De musica I, 2), autori ben noti a Dante e a tutto il Medioevo.
Nella concezione del suo Paradiso, il poeta aveva sentito il bisogno di testimoniare non solo con la luce, ma anche con il suono, la perfezione che regna negli spazi riservati alle anime sante.
Questa armonia sonora delle sfere celesti fa da sfondo alle voci dei beati del Paradiso che appaiono a Dante intenti a cantare le lodi del Creatore; addirittura Dio assume le vesti di un compositore e direttore d’orchestra, quando interviene a silenziare momentaneamente il canto delle anime, assimilato con immagine ricorrente (cfr. Par. XIV, 118) alle corde vibranti della lira (Par. XV, 1-6):

Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.

Il suono delle stelle e il canto dei beati rappresentano dunque la manifestazione musicale di quella grande armonia universale che caratterizza il cosmo. La musica, però, non è però soltanto matematica. Dante lo sa, e ne riconosce il fascino e la capacità di produrre estasi nell’anima: «la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve lo suono» (Conv. II, 13).
Tutta la Divina Commedia si gioca sulla contrapposizione tra Caos e armonia, tra rumore e melodia, tra agitazione spasmodica delle membra e danze ritmate e scandite. Il regno del Caos è la fossa infernale (etimologicamente in greco Caos significa proprio “voragine”): si pensi al movimento convulso e disordinato dei dannati, sbattuti da tempeste impetuose (Paolo e Francesca, canto V) o inseguiti da cagne rabbiose (gli scialacquatori del canto XIII) o costretti a muoversi senza meta (gli ignavi, canto III), o al rumore incessante dei lamenti che impressionano il poeta sulla soglia dell’Inferno (canto III, 22-23: «quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle)».
E si confronti tale sentimento di spaesamento e confusione con la precisione dei movimenti dei beati nelle corone danzanti dei canti XI e XII del Paradiso, dove ogni gesto è sincronico e armonioso, pienamente rispondente all’idea di ordine e razionalità che informa il Paradiso. Ad un livello intermedio si pongono le anime del Purgatorio, dove i salmi e le melodie intonate dai penitenti non sono espressione di un paradisiaco trasumanar, ma un canto polifonico che accomuna tutti loro nell’unico desiderio cui essi tendono: giungere alla visione di Dio dopo l’espiazione delle loro colpe.
L’armonia dantesca non è però solo quella della musica, ma anche quella dei numeri. È noto infatti come tutta il poema sia intriso di sottili rimandi interni, di nascoste simbologie numeriche tra le cantiche, che se non fanno di Dante un esoterico di stampo pitagorico hanno tuttavia il merito di confermarci la sua completa adesione alla numerologia medievale. Valga come esempio il numero 3 della Trinità: 33 sono canti per ogni cantica; 9, ossia 3x3, gli anni che il poeta aveva alla prima apparizione di Beatrice, 18, ossia 9x2, la sua età al loro secondo incontro. Anche il Caos infernale, essendo voluto dalla divina podestate (Inf. III, 5) è organizzato in cerchi, gironi, bolge, zone.
Tutto il Creato è infatti espressione razionale della potenza divina, dove nulla è lasciato al Caso e, potremmo dire, nemmeno al Caos. L’armonia non informa solo il Cosmo, ma dovrebbe regolare, pur nel gioco del libero arbitrio dato all’uomo, la vita della società civile: cos’altro è il De Monarchia se non un inno alla concordia tra Papato e Impero, in cui Dante spera quasi con attesa messianica che si possa finalmente vivere liberi dai conflitti che hanno dilaniato l’Italia?
Dante, insomma, vedeva nell’armonia non solo un criterio ordinatore del Creato, ma un principio ispiratore per dare senso alla vita, per diffondere la bellezza, per diventare, seppur in minima parte, partecipi dell’armonia universale che trova definitiva compiutezza nel Paradiso.
Considerata la situazione attuale, sembra che le certezze e parimenti le speranze dantesche siano andate deluse. Il globo è oggi dilaniato da conflitti senza sosta, l’armonia politica e civile è nemica dei grandi sistemi economici che non solo incoraggiano la Guerra ma la usano anche come ricatto di potere; in questo non siamo molto distanti dal tempo di Dante.
La scienza moderna ha inoltre dimostrato che il mondo non è regolato dal principio dell’armonia universale dei cieli concentrici, ma sembra piuttosto essere caratterizzato dal concetto quasi filosofico di entropia, termine che comunemente indica lo stato di disordine crescente nell’Universo (ma che propriamente misura il grado di dispersione dell’energia durante un processo ad una temperatura stabilita); inoltre, l’astrofisica ha ormai accertato che l’Universo non è immobile ma in espansione; la bellezza estetica come prodotto di armonia è un canone ormai superato sin dalle avanguardie di primo Novecento, e quanto all’accertamento dell’esistenza di Dio, siamo fermi alla prova ontologica di Sant’Anselmo (il bosone di Higgs, “la particella di Dio” non ci ha aiutato molto). Il mondo insomma non è eterno, il mondo non è ordinato, il mondo di oggi non è più quello di Dante.
Tuttavia, se i Cieli danteschi non esistono, la scienza sta forse scoprendo che anche le stelle possono emettere suoni: è di pochi anni fa uno studio che registrava l’emissione di onde sonore dagli astri, con una frequenza di oltre un bilione di Hertz, ovviamente non percepibile da nessun orecchio umano od animale.
Ma soprattutto, della musica universale di Dante ci resta oggi un qualcosa di misterioso che abbiamo ascoltato per la prima volta nemmeno 60 anni fa: la radiazione di fondo, l’eco di quel grande scoppio, vecchio di 14 miliardi di anni, che ha dato origine all’Universo, il Big Bang, catturata dagli astronomi Penzias e Wilson nel 1964. Non sarà la musica armonica che immaginava Dante, ma è un pur sempre un vagito cosmico che durerà in eterno.

 

Prof. Fjodor Montemurro

(Presidente Società Dante Alighieri, Matera)

 

 

Ritratto di giovane uomo con libro. A. Bronzino, 1540 circa ott

Franco Cosimo Panini Editore

 

 

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