"Ancora sui rami del futuro, la speranza crede al fiore che avvampa"
Le navi del sogno
Il contributo dell’Umanesimo italiano al “miracolo europeo”
(seconda parte)
«Where absolute power is,
there is no publick».
(Lord Shaftesbury)
V’è unanimità degli studiosi nel ritenere che l’Umanesimo e il Rinascimento abbiano avuto un’importanza decisiva per i destini dell’Occidente, anche se alcuni sottolineano la divergenza tra umanesimo italiano e quello dell’Europa del Nord. Quest’ultimo sarebbe stato “pacifista” per reazione alle tragedie della guerra tra la Francia e i fautori dell’impero in Italia (A. E. McGrath, Il Pensiero della riforma: Lutero, Zwingli, Calvino, Bucero. Una introduzione, Claudiana, 1991; di parere un po’ differente E. Garin, La cultura del rinascimento. Profilo storico, Laterza, 2010).
È tuttavia molto difficile separare la cultura dal suo sfondo sociale. Quello che è certo è che l’Umanesimo e il Rinascimento sorsero e si svilupparono nell’Italia dei Comuni e che la molla che fece scattare questo movimento culturale fu la critica, spesso feroce, contro la “lussuria”della chiesa e nel contempo la riscoperta dei classici dell’antichità, che la decadenza medioevale e la chiesa avevano fatto sparire perché “pagani”.
Della cultura antica era sopravvissuto il neoplatonismo, e questo perché Platone, diversamente da Aristotele e dagli Stoici, era più facilmente interpretabile in chiave cristiana (E. Berti, Struttura e significato della Metafisica di Aristotele, Edusc, 2008).
La chiesa reagì accusando di eresia molti umanisti. Persino Dante, che pure non era stato tra i critici maggiori della chiesa, fu oggetto di rancore da parte del clero. Nel 1335, in una riunione del clero a Firenze, la Divina commedia venne dichiarata opera eretica.
Molte città italiane erano di fondazione romana, e quando la chiesa di Roma sopravvisse all’impero, ereditò di fatto l’assetto burocratico centralizzato ma ramificato dell’impero. Le città divennero la sede dei vescovi in un contesto sociale feudale frammentato. Nel Centro-Nord gli antichi centri urbani avevano continuato a svolgere funzioni amministrative, giudiziarie e notarili, che ora ruotavano intorno ai vescovi.
Sebbene questi intellettuali fossero degli esperti di diritto, essi in realtà erano anche proprietari di tenute nei pressi della città. V’erano anche famiglie nobiliari che si erano urbanizzate, ma anche artigiani e mercanti, soprattutto nelle città costiere che si proiettavano nel Mediterraneo, e numerosi erano i membri del “popolo basso” appartenenti a qualche corporazione.
In un’epoca di grande insicurezza, le città avevano interesse, da tutti condiviso, a non cadere sotto un qualche dominio feudale. Come scrive il vescovo Ottone di Frisinga alla fine del secolo XII, i cittadini dei comuni lombardi «amano tanto la libertà che, per sfuggire alla prepotenza delle autorità, si reggono con il governo di consoli anziché di signori. Poiché tra loro vi sono tre ceti – dei capitanei, del valvassori, del popolo – per contenerne le ambizioni, i consoli sono eletti non da uno solo, ma da ciascuno dei tre ceti e, perché non si lascino prendere dalla voluttà del potere, sono mutati quasi ogni anno» (cit. in G. Tabacco, G.G. Merlo, Il Medievo, Il Mulino, 1989, p. 313).
La composizione e l’assetto dei consolati (o Repubbliche) sono variabili, ma in ogni caso in essi vi era una componente preminente di impronta aristocratica.
Purtuttavia, le città italiane già verso la fine del XII secolo «si erano liberate dal potere signorile superiore, stavano imponendo la loro giurisdizione all’aristocrazia militare della campagna e ricostituendo l’unità della dominazione del contado … ed erano impegnati in conflitti armati tra loro e con i signori locali. I comuni attraverso il dinamismo dei gruppi dirigenti erano in grado di perseguire un’autonoma politica a vasto raggio: in un contesto internazionale caratterizzato dal riaccendersi del contrasto tra regnum e sacerdotium, dalle rivalità bizantine e dall’ostilità dei Normanni d’Italia verso l’imperatore tedesco» (Tabacco e Merlo, ivi, p. 315).
Raramente, tuttavia, gli umanisti italiani arrivarono a negare il valore dell’aristocrazia. Come è però evidente in Machiavelli, Giannotti e molti altri (anche prima), importanti umanisti distinguevano tra la vecchia nobiltà di famiglia, che a loro giudizio disprezzava il popolo, e la nobiltà per virtù, cioè la capacità di unire il popolo per tenerlo lontano dalle fazioni e dalla guerra civile e fornire quella milizia che fosse capace di difendere le loro libertà (vedi soprattutto i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, Ricciardi, 1954, pp. 87 e ss., dove è sottolineata l’importanza di una sorta di ceto medio capace di fare da ponte tra i vertici e il “popolo basso”, onde fornire le opportune milizie cittadine; su questo anche M. Ryan, Freedom, law and the medieval state, in Q. Skinner, B. Stråth (eds.), State and citizens: history, theory, prospect, Cambridge U. P., 2003).
Ben presto iniziarono però a sorgere contrasti interni essenzialmente dovuti al predominio di una aristocrazia cittadina, che veniva contrastata da cittadini benestanti e dal “popolo minuto” che aveva goduto di una certa mobilità sociale a seguito della crescita dei commerci e dell’artigianato organizzato in gilde. Alla fine del XII secolo inizia a farsi forte anche l’opposizione tra “guelfi” filopapali e “ghibellini” filoimperiali, cosa che portò ben presto le città a coalizzarsi e a combattere tra di loro lungo questa contrapposizione. In ogni caso il patriziato proveniente dal “popolo grasso” spesso si legò alla nobiltà e portò ad un forte indebolimento dei popolani nel XV secolo.
Nel secolo seguente i popolani vennero definitivamente sconfitti e sulle loro rovine la nobiltà riedificò la sua sovranità. Le Repubbliche si trasformarono in Signorie, Principati e Ducati. Così la luce del Rinascimento si spense e trionfò la Controriforma. (M. Ascheri, Medioevo del potere, Il Mulino, 2009; H.G. Koenigsberger, G.L. Mosse, G.Q. Bowler, L’Europa del Cinquecento, Laterza, 1990).
Gli aspri attacchi al lusso e alla dissoluzione degli ecclesiastici da parte degli umanisti italiani possono a buon diritto essere paragonati alla posizione di alcuni riformatori. Il tema centrale della Riforma era lo stesso che animava gli umanisti italiani già nel XIV secolo: si trattava di ritornare alla fede e alla prassi della chiesa delle origini.
Contro il “Papa-re”, si doveva tornare a un’era di christianismus renascens, proprio come molti umanisti italiani avevano sostenuto e come molte profezie popolari, bollate come eresie avevano continuamente riproposto.
Il christianismus renascens evocato era quello dell’era apostolica e dei padri della chiesa. «Era necessario tornare al Nuovo Testamento e ai suoi primi interpreti per imparare da loro … i Riformatori lanciavano una sfida ai dirigenti religiosi della loro epoca. Costoro erano colpevoli di avallare … distorsioni della fede cristiana, aggiunte e distorsioni che rispecchiavano gli interessi dei collettori ecclesiastici di fondi, nonché le superstizioni popolari. Le dottrine del purgatorio e delle indulgenze erano specificamente bollate come culti sub-cristiani che sfruttavano le speranze e le paure della gente comune» (A.E. McGrath, cit., p. 24), soprattutto in un’epoca contrassegnata da pestilenze, carestie e epidemie di sifilide.
Ci fu un ulteriore pullulare di profezie millenaristiche, spesso influenzate dall’astrologia. La chiesa le bollava come eresie quando apparivano non conformi al volere del Papa-re (famoso il rogo, ordinato dall’Inquisizione, di Giordano Bruno a Roma), che nel frattempo aveva sconfitto i conciliaristi
In questo clima di estrema incertezza, soprattutto le polemiche sulle indulgenze (esplicitamente considerate da Lutero la prova che la chiesa di Roma si era corrotta) furono la classica goccia che fece traboccare il vaso, dopo quasi due secoli che in molti Paesi (dalla Svizzera alla Germania, alla Boemia e all’Inghilterra) la forte critica alla chiesa si era legata a una sorta di nazionalismo contro la straniera Curia romana. Tanto più che le persecuzioni contro i riformati si erano diffuse.
Il massacro dei calvinisti a Vassy e quello degli Ugonotti nella notte di San Bartolomeo (1572) danno l’avvio alla quarta guerra di religione. Questa volta non si trattava solo di rivolte dei contadini, come quella in Germania contro cui si schierò Lutero, ma di vere guerre tra eserciti, perché molti nobili avevano aderito alla riforma. In Italia del Nord molte proprietà erano già state espropriate alla chiesa e i privilegi ecclesiastici erano stati fortemente attenuati e questo (almeno in parte) spiega perché la Riforma qui ebbe uno scarso impatto nonostante i precedenti del Rinascimento.
Ma probabilmente la cosa più importante fu che il Rinascimento si era già avviato al tramonto con la trasformazione dei Comuni in Signorie e Principati. Nel 1512 a Firenze cade la Repubblica e tornano i Medici, mentre l’anno dopo un Medici diventa Papa col nome di Leone X, di cui il popolo romano diceva: Intrasti ut vulpis, vixisti ut leo, obiisti ut canis.
Ma saranno proprio le guerre di religione che spingeranno alcuni riformatori a elaborare la teoria dei “diritti soggettivi”, inaugurando una svolta nel pensiero politico dell’Occidente.
In ogni caso la filosofia della natura italiana si era diffusa in tutta Europa, anche se ancora intrisa di magia (Campanella, Pomponazzi, ma persino Leonardo, Copernico e Keplero), così come i testi della scienza classica riscoperti dagli italiani.
Nel corso delle guerre di religione si aprì un dibattito su come si dovessero comportare i fedeli di fronte al principe tiranno. Sia Lutero che Calvino erano sostenitori del diritto a una resistenza solo passiva. Si doveva resistere alle pretese papali per dovere verso la vera fede. Soltanto intorno al 1562-63 Calvino, influenzato dai luterani, fa il passo importante verso una tesi “costituzionale” di “resistenza attiva”: vi sono “magistrati e ordini” che possono obbligare il principe tiranno a mantenere fede ai doveri di operare nel bene comune del popolo, con giustizia ed equità. In questa tesi, dunque, c’è ancora uno strato superiore al popolo che decide per il popolo, i “magistrati”.
Saranno gli Ugonotti che faranno un passo decisivo verso un argomento in cui il principe non ha alcun fondamento religioso, per cui il diritto a resistere non è più un dovere religioso. Verranno elaborate delle tesi poggianti sul concetto stoico-conciliarista di stato di natura: per elezione da un diritto originario di natura vi sono due “patti”. Il primo è tra Dio e il popolo, per cui “il popolo creò il re”. Il secondo è tra Dio e re. Il popolo delega il suo potere elettivo ai “magistrati”, mentre il re deve mantener fede al patto con i “magistrati” di pax et justitia. Lo jus gladi o Lex Regia sta nei magistrati eletti: tramite i magistrati, il re è solo un mandatario del popolo. I diritti naturali sono però ancora diritti di un “corpo” o “corporazione”, non di singoli individui.
Gli Ugonotti criticano però ogni tipo di assolutismo e, riprendendo gli umanisti italiani (come Valla, Pomponio, Poliziano, Alciati), essi contestano la Donazione di Costantino e criticano l’applicabilità del codice di Giustiniano con cui la Chiesa e la nobiltà pretendevano l’assoluta continuità con l’impero romano. Tuttavia è solo con il 1579, quando si era in piena guerra di religione, che arrivarono a legittimare la resistenza attiva.
Nello stesso anno verrà pubblicata l’opera che inaugura la prima vera concezione moderna dei diritti. Sarà il calvinista scozzese G. Buchanan che nel De jure regni apud scotos stabilisce che sono i singoli membri del popolo che hanno il diritto di eleggere i propri governanti, senza delega alcuna. Il governante è solo “minister” e deve agire da custode del pubblico interesse.
Qui la fondazione della politica sta nella protezione dei diritti individuali piuttosto che nel bene comune. Il consenso verso il re è dei singoli individui per la loro stessa sicurezza e il loro bene. «Il singolo ha perciò il diritto a difendere sempre la propria libertà, sino ad uccidere il tiranno per difendersi» (Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, Il Mulino, 1989, 2 voll., vol. II, p. 433 e ss.).
I calvinisti scozzesi metteranno solide radici durante la rivoluzione di Cromwell. Quando nel 1649 fu condannato a morte Carlo I, Oliver Cromwell giustificò l’esecuzione del re proprio con gli argomenti di Buchanan, e cioè che era legittimo giustiziare il principe tiranno che si fosse macchiato del delitto di attentare ai diritti naturali dei membri del popolo, rompendo così il patto con cui gli erano stati delegati i poteri di governo. Le posizioni di principio dei calvinisti scozzesi erano peraltro stati ripresi nel 1647, durante il famoso dibattito di Putney tra Livellatori e Indipendenti presbiteriani insieme agli ufficiali di Cromwell. Il tema era se tutto il popolo avesse il diritto di voto.
Pur sostenendo una tesi già pienamente democratica, i Livellatori alla fine accettarono la tesi conservatrice che sosteneva l’idea del diritto di voto solo per chi avesse un determinato livello di reddito. L’argomento con cui venne difesa questa proposta fu che i più poveri avrebbero potuto essere facilmente indotti a votare per i loro padroni.
Dal Cinquecento il caos feudale e le continue guerre fanno sì che le monarchie tendano sempre più a divenire dei centri di potere caratterizzati da due aspetti del tutto nuovi rispetto all’assetto propriamente feudale.
In primo luogo, il re tende ad affermarsi come l’unico vero detentore del potere legittimo: la monarchia diviene l’effettivo “comando di uno solo”. In secondo luogo e parallelamente, questo potere viene sempre più organizzato in un sistema di apparati burocratici più professionalizzati e, cosa fondamentale, dotato di mezzi propri.
«Dappertutto … monarchie ereditarie evolvono verso l’assolutismo; approfittando delle sanguinose lotte che hanno decimato le aristocrazie terriere per sostituire al vago concetto di «signoria» (alto dominio) il concetto più rigido, largamente ispirato alle idee romane, di “sovranità”. Appoggiate a borghesie mercantili, bisognose di ordine e di pace ... esse fanno regnare al di sopra delle consuetudini [tipiche del caos feudale] la loro legge. Mirano a occupare, con annessioni o fusioni, il dominio che la geografia sembra abbia attribuito in ogni tempo alle nazioni che esse comandano … In questi stati … l’autorità tende all’accentramento amministrativo, elimina barriere interne, mentre eleva più alte quelle che li separano dagli stati confinanti …» (H. Hauser, A. Renaudet, L’età del Rinascimento e della Riforma, Einaudi, 1957, p. 21).
Questo processo di centralizzazione (che dai liberali sarà chiamato “assolutismo”, termine affermatosi nel linguaggio degli storici) sarà evidente soprattutto in Francia con Luigi XIV, ma in parte anche in Spagna e nei Paesi Bassi, soprattutto dal Seicento.
Quello dell’assolutismo è stato, in parte, un mito diffuso dal liberalismo (N. Henshall, Il mito dell’assolutismo, Il Melangolo, 2000), ma non c’è dubbio che gli apparati dei monarchi tendessero a diventare sempre più delle burocrazie accentrate con funzionari dotati di risorse pubbliche. Per lo più era nell’esercito che le aristocrazie erano fortemente presenti, ma ormai in un rapporto di gerarchia dipendente dal sovrano e dai suoi ministri.
Da questo punto di vista l’Inghilterra rappresenta la solita eccezione. È vero che nonostante il Bill of Rights del 1689-89 molti poteri erano ancora accentrati nella monarchia. Soprattutto la politica estera era decisa dalla corona. Abbiamo però visto che di fatto era la gentry che controllava le milizie territoriali e che solo la Marina era di fatto l’unica arma di cui disponesse il re. Il parlamento poteva mettere il veto sull’aumento delle tasse e incominciò ad affermarsi la dottrina della “separazione dei poteri” dello Stato.
Nel 1690 la dottrina della separazione dei poteri fu argomentata nei Due trattati sul governo (UTET, 2010) da J. Locke, in cui tutto il primo trattato è dedicato a confutare la concezione del diritto divino dei re (Il Patriarca di Filmer).
In un passo del secondo Trattato Locke dice che «la monarchia assoluta, che da alcuni è considerata come l’unico governo al mondo, è, in realtà, incompatibile con la società civile, e quindi non può per nulla essere una forma di governo civile»(p. 289).
Poiché la “società politica” (lo Stato come “autorità riconosciuta” dalla “società civile”) sorge per superare gli inconvenienti dello “stato di natura” (l’homo homini lupus di Hobbes, che porta al bellum omnium contra omnes), «né un potere assoluto e arbitrario, né un governo privo di leggi fisse e stabilite, possono conciliarsi con i fini della società e del governo, e gli uomini non avrebbero rinunciato alla libertà di natura, né si sarebbero sottoposti al governo, se non era per conservare la propria vita, libertà e fortuna, e garantire la propria pace .. con norme dichiarate sul diritto e la proprietà. Non si può supporre ch’essi … intendessero conferire a una o più persone il potere assoluto e arbitrario sulle loro persone ed averi» (p. 331). Un concetto, questo, ribadito più volte, sottolineando che «il legislativo né deve né può trasferire il potere di fare leggi ad altri o collocarle in mani diverse da quello in cui l’ha posta il popolo» (p. 336). Non a caso Locke cita numerose volte il Buchanan.
In Locke è dunque già chiaro che lo Stato (o “società politica” formatasi con la libera volontà di tutto il popolo) ha due punti fondamentali che lo distinguono nettamente da precedenti forme di potere:
Pur con tutti i limiti cui ho accennato, nell’Inghilterra del Settecento, l’arbitrio, compreso quello della burocrazia (R. Brewer, The sinews of power, Unwin, 1989), era fortemente limitato. Pur mancando di una vera costituzione (comunque assicurata da alcune leggi fondamentali votate del parlamento), il sistema politico inglese andò decisamente nella direzione di una democrazia a suffragio universale (su tutto questo si veda L’Inghilterra tra Sei e Settecento: nascita della società moderna, in N. Addario, La fine della morale. Genesi, forme storiche e critica dell’autodescrizione della società moderna, Mimesis, 2018, Vol. 2, pp. 132-210).
Sul piano concettuale tutto ciò significa che la struttura complessiva della società Inglese, tra Sei e Settecento, vede la gerarchia di ceto sempre più sostituita da una differenziazione per sistemi specializzati in una determinata funzione. È in questo modo che il potere si separa dall’ economia.
Il primo assumendo una configurazione sempre più democratica e a sua volta separando il governo, dal potere giudiziario e dalla “società civile” (con le sua associazioni, partiti, sindacati ecc.); la seconda escludendo i monopoli (specialmente se derivati da collusioni politiche) e organizzandosi in base al principio di libera concorrenza e di contratto tra privati.
Solo e soltanto in tale contesto differenziato il concetto di politica acquista il significato cui oggi siamo abituati: politica significa potere ottenuto in base a una libera democrazia, dove anche i mezzi d’informazione sono liberi da censure. Non a caso fu proprio la stampa che contribuì molto alla diffusione delle idee rinascimentali e della Riforma.
La nascita e l’affermazione della cosiddetta “opinione pubblica” sono dovute alla libera stampa. A sua volta la Riforma fu decisiva per la diffusione del pluralismo, inizialmente proprio come tolleranza religiosa: è stata la madre del pluralismo e quindi della politica democratica. «È un classico caso di effetti che retroagiscono sulle cause, amplificandole e consolidandole storicamente»(D. Zaret, Printing and the invention of public opinion in the english revolution, “American Journal of Sociology”, 101, 1996, pp. 1497-1555).
L’interdipendenza reciproca di economia, politica, scienza, mass-media, famiglie e religione presuppone la loro autonomia, di modo che ciascuno risponda soltanto al suo specifico criterio operativo: l’economia al profitto/perdita in regime di libera concorrenza; la politica a leggi statuite in un parlamento democratico; i mass-media a criteri di notiziabilità liberi da qualsiasi costrizione; i processi realizzati da giudici indipendenti dal potere; la scienza operante in base a conoscenze pubbliche comprovate da esperimenti ripetibili che abbiano accertato verità/falsità;la religione lasciata alle libere scelte delle persone e sul presupposto della laicità dello Stato.
Dalla seconda metà circa dell’Ottocento questo modello inglese andò diffondendosi nell’Europa occidentale a seguito della sconfitta di Napoleone, dei moti del 1848 e della rivoluzione industriale. Nel secolo seguente ci sono state importanti reazioni come Fascismo e Nazismo, non per caso provenienti da Paesi che si erano modernizzati tardi e in modo fortemente autoritario (le cosiddette “rivoluzioni dall’alto”), anche in questo, peraltro, confermando il “miracolo europeo” e quindi la “grande divergenza” tra l’Occidente e il resto del mondo.
Come ha evidenziato la storia qui tratteggiata, l’economia ha un vero e duraturo decollo soltanto in presenza di una politica democratica e quindi realmente separata e “sorvegliata” dalla “società civile”.
Nicolò Addario
(Prof.re ordinario di Sociologia generale,
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)
NOTA PER IL LETTORE: la prima parte del testo è stata pubblicata nel precedente numero dei Quaderni.
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