freccia arancio

 

 "La verità è spesso più vicina al silenzio che al rumore"

 

Le stanze dell’anima

  

Il mio primo ricordo di Alda Merini, poetessa, risale ad una raccolta antologica di poeti contemporanei curata da Giacinto Spagnoletti, edita nel 1950 - più volte riedita e trasformata in antologia scolastica nel 1958 -  che raccoglieva tre sue  liriche,  scritte quando la giovanissima poetessa aveva quindici anni.     È un ricordo che conservo vivo perché, io, allora quattordicenne, iniziavo a comporre le mie prime poesie; il mio professore di Italiano del quarto ginnasio, mi disse:  «Dai una scorsa a questo libro. Vedrai, contiene anche i versi di una tua coetanea, o quasi: Alda Merini. Impara da Lei!».

Direi, però, che, per un quattordicenne che sta facendo l’atroce fatica di affrontare insieme Latino e Greco, quelle tre liriche erano troppo avanti, come a seguire saranno sempre avanti le variazioni sui temi di Alda Merini, che nascono da un’infanzia difficile e durissima, da tante incomprensioni (soprattutto della madre; il padre l’adorava), cattiverie, disprezzo, maldicenze che Alda ha sfidato sempre con una forma di spavalderia che intrecciava  un idealismo fatto della luce degli incontri fantastici e le fantasie mistiche per le quali aveva pensato di farsi suora.
Spavalderia  che non lasciò mai, anche quando, passate le tante bufere della sua vita (compresi gli otto anni  in manicomio dal 1964 al 1972) iniziarono gli incontri con gli artisti e i poeti e per Lei – che non amava la pubblicità – erano variazioni sul tema Io-Tu e l’abisso del mondo e della mente che naviga nel buio delle notti senza fine.
Proprio su questi passi di vita, ci siamo conosciuti di  persona nella comunità di San Nicolò all’Arena, in Verona, dove l’aveva accompagnata Marco Campedelli, il prete burattinaio - don Chiodo lo chiamava  (erede del grande burattinaio Nino Pozzo). A lui e a Giorgio Gaber, Alda aveva dedicato la raccolta La clinica dell’abbandono (Einaudi 2003).

È vivissima la memoria di quel primo incontro.

Ero seduto al mio posto di ministro straordinario, attendendo l’inizio della liturgia eucaristica. Marco e Alda vennero davanti a me, e mi alzai.
Marco disse: «Alda, questi è il mio preside. Ti ricordi vero che io insegno Religione Cattolica al liceo Maffei? Ecco, questi è il mio preside: Francesco Butturini».
Alda mi guardò quasi con sospetto e disse, guardando Marco: «Perché mi presenti a un preside, al preside del Maffei che già mi suona male perché mi sembra una roba vecchia, da vecchi libri di storia del passato?».

 Io e Marco la guardammo fra lo stupito e lo sconcerto e Marco disse:«Niente di vecchio, Alda. È giovane, pieno di vita; gira l’Italia intera per rinnovare le scuole con la didattica multimediale».

Quasi lo interruppe:
«Peggio. Scrivere a macchina è già qualcosa che va oltre le mie intenzioni. Meglio la biro. Meglio dettare a qualcuno che scriva per me» – fece una pausa – «preside, lei scriverebbe per me se qualche volta la chiamo al telefono? Marco ce l’hai il telefono del preside, vero?».

E fu così che, dopo qualche giorno, alle tre di notte, squillò il telefono di casa. Cuore in gola, corro al telefono,  sento la voce di Alda:

 «L’ho svegliata? Ha carta e biro? Scriva:…».

E incominciò a farfugliarmi parole incomprensibili che cercai di decifrare.

La mattina dopo chiamai Marco Campedelli e gli chiesi se Alda Merini chiamava anche lui alle tre di notte.

Mi rispose che accadeva un giorno sì e un giorno no.

«Ma lei non ha famiglia e figli in giro per il mondo e non le viene il cuore in gola se squilla il telefono alla tre di notte!»

«Vero. Dirò ad Alda di non chiamarla più».

Così fu, per fortuna. Come effetto collaterale Marco mi disse che Alda c’era rimasta male e aveva commentato che era naturale che un preside alle tre di notte dormisse. Non era un poeta, quindi il cuore non gli batteva come batteva a lei anche alla tre di notte.
Era, mi sembra, il 2000 o 2001.

 Il 14 dicembre 2004, vengo convocato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per la consegna di una medaglia d’oro con le solite motivazioni istituzionali (mi sembra, Scuola, Arte, Cultura), in un grande salone, stracolmo di personaggi noti e meno noti.

Alda era seduta vicino a me. Sedia a sedia.

Passano più nomi, quindi il mio:“Preside Francesco Butturini”.
Mi alzo, vado davanti al Presidente Ciampi, che è accompagnato dal Ministro della Pubblica Istruzione Letizia Moratti, mi consegna la pergamena e la medaglia d’oro. Il fotografo scatta alcuni flash; applausi;scambiamo due parole, due strette di mano e torno al mio posto.

Subito dopo: “Signora Alda Merini.”

Alda non fa una piega. La voce della speaker ripete: “Signora Alda Merini”. 

Alda resta immobile. Le sussurro: «Alda, deve andare a prendere la medaglia, il Presidente l’ha chiamata».

Non si muove, poi gira la testa verso di me e quasi a voce alta:«Che venga qui il Presidente a darmi la medaglia, se me la merito, venga lui».

Così fu. Il Presidente Ciampi venne, insiema al Ministro Letizia Moratti. Io mi spostai, Alda si alzò, Ciampi le consegnò la medaglia. Si strinsero la mano. Grandi sorrisi, grandi applausi e tanti flash.

Riprese la cerimonia, con altri nomi, altri flash, altri applausi.

Dopo pochi minuti, Alda mi strattonò il braccio.

«Adesso possiamo andare».

«Alda, non è finita la cerimonia, ci sono altri premiati. Abbia pazienza un attimo». «No, per me è finita, qui non ho altro da fare».

Quasi di forza mi fece alzare; uscimmo non solo da quella grande aula, ma dal Quirinale e andammo a sederci su una panca fredda di marmo. Alda si accese una sigaretta e disse: «Preside, adesso puoi andare. Io ho gente che verrà a prendermi tra poco. Ciao e congratulazioni per la medaglia. Vai, vai, che io voglio fumarmi in pace questa sigaretta. Poi alle cerimonie ci sono abituata; due anni fa: pensa! Commendatore! Alda Merini è Commendatore della Repubblica. Tu sei Commendatore, preside?».

«No» dissi. «Sono solo Cavaliere Ufficiale».

«Alda Merini è Commendatore. Ciao, puoi andare. Alzati, arriva quello che mi riporta a Milano».

Non posso dimenticare quella mattina, come non posso dimenticare le altre volte che ci incontrammo in San Nicolò all’Arena, sempre con don Chiodo, sempre prima della messa. Non ho mai fatto caso se Alda restasse. A volte avevo la sensazione che scomparisse nel nulla di un’aula ecclesiale strapiena. Marco Campedelli mi disse che qualche volta restava, spesso andava in sagrestia a fumare.
Così quando nel 2015 l’editore veronese “Scripta” pubblicò le sue tre ultime liriche  nel volumetto Santi e Poeti-Tre poesie inedite tutto mi è ritornato nel cuore e nei polmoni.
Sì, nei polmoni, perché Alda “si respirava” come si respira l’aria dei Navigli, l’aria della Milano dei poveri che vivono nei cartoni. E poi Alda, ha prefazionato una mia raccolta di liriche Frammenti di Speranza su pressione (sono convinto!) di Marco Campedelli, perché non posso dimenticare che di un preside Alda non aveva proprio nessuna fiducia come poeta, dico, non come preside. Come preside ero: Signor preside e a colpi mi dava del “lei” a colpi mi dava del “tu”.

Però quella sua prefazione mi commosse e mi piacerebbe se voi la leggeste.

 

 Francesco Butturini

(medievalista)

 

 

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