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 "Ogni forma di cultura viene arricchita dalle differenze attraverso il tempo,
attraverso la storia che si racconta
"

 

Gli Stati generali

Date a Cesare ... ma senza esagerare

Le significanti sintonie tra Pio XII ed Einaudi

sui limiti della fiscalità


A guerra appena iniziata, il 1° novembre del 1939, primo anno del suo pontificato, Papa Pacelli pronunziò l’Enciclica Sertum Laetitiae rivolta al clero americano, che celebrava il 150° anniversario della costituzione della gerarchia ecclesiastica negli Stati Uniti d’America. In tale occasione egli lodò l’associazionismo ed il solidarismo cattolico d’Oltreoceano, che si prodigava in favore degli strati più deboli della società, quali i negri, i poveri, gli infermi, gli afflitti, categorie tutte a lui particolarmente care.
Certamente il documento papale dovette avere un forte impatto in una realtà dove il cristianesimo aveva molteplici sfaccettature: basti pensare, ad esempio, alla componente puritana  di derivazione calvinistica, che nei miseri non vedeva- come i cattolici -il volto stesso di Gesù sofferente, bensì dei predestinati all’eterna dannazione, in quanto l’insuccesso sulla terra, era considerato il segno della mancata predilezione divina. Tornando al messaggio pacelliano, la radice di ogni male era identificata nella trascuratezza verso i precetti del Creatore, dalla quale scaturivano smodato e cieco egoismo.
Pio XII volle soffermarsi sul tema della questione sociale, che considerò costantemente correlata con la tutela  della persona umana nella sua dimensione individuale, come in quella familiare.
Dopo aver auspicato che «i beni da Dio creati per tutti gli uomini, equamente affluiscano a tutti, secondo i principi della giustizia e della carità», il Pontefice evidenziò che i ricchi oltre ad aiutare i bisognosi, dovevano corrispondere il giusto salario agli operai, affinché costoro potessero assicurare il pane quotidiano a sé ed ai propri familiari.
Il conflitto mondiale dilagava e sembrava lontana di secoli l’atmosfera nella quale, appena cinquanta anni prima, aveva visto la luce l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, sulla quale è necessario spendere qualche parola, per introdurre il radiomessaggio che nella ricorrenza celebrativa pronunciò Pio XII.
Un rilevante problema interpretativo che si era posto nella seconda metà dell’Ottocento, era stato quello se il movente principale all’azione della Chiesa fosse stato quello della lotta al liberalismo ed al socialismo, e quindi un’azione fondamentalmente propagandistica, oppure un’autentica sensibilità verso le condizioni dei più miseri, che lo sviluppo della società industriale aveva reso più drammatiche.
Noi propendiamo per la seconda tesi, considerando che la Chiesa, attraverso benemeriti ordini religiosi, era da non breve tempo impegnata con fattiva presenza in favore degli ammalati, dell’infanzia abbandonata, dei poveri e dei più deboli in genere.

Punto di arrivo di un ricco dibattito dottrinale in seno alla Chiesa universale (Mermillod, Ketteler, Curci, Bonomelli, Lamennais, Lacordaire, Montelenbert, Manning, Toniolo e tanti altri) e quindi sintesi autorevole di un ampio contributo di qualificate riflessioni, il 15 maggio 1891 aveva visto la luce la citata Rerum Novarum, a testimoniare la sensibilità del magistero spirituale di Leone XIII, di fronte alla gravità ed alla rilevanza cui erano ormai giunti i conflitti sociali.
Ripudiato il metodo marxista della lotta di classe, l’enciclica aveva proposto la collaborazione fra padroni ed operai, da realizzare attraverso le corporazioni delle arti e dei mestieri, che la rivoluzione francese aveva soppresse.
Elemento saliente ed incisivo del messaggio papale, era stata la richiesta del giusto salario, che non doveva essere la risultanza del libero meccanismo della domanda e dell’offerta, bensì andava commisurato al sostentamento necessario per l’operaio e della sua famiglia. I suoi contenuti ed il suo spirito trascesero i limiti temporali del Pontificato in cui aveva avuto origine, per cui fu “novellata” nella Quadragesimo anno di Pio XI, realizzata appunto nella circostanza del quarantesimo anniversario della Rerum Novarum.

Pio XII, sulle orme dei Pontefici che lo avevano preceduto, manifestò il desiderio di avvalersi della ricorrenza celebrativa  tramite la ricordata Sertum laetitiae per fornire degli ulteriori principi direttivi etici su tre valori fondamentali della vita sociale ed economica, quali erano: l’uso dei beni materiali, il lavoro e la famiglia. Quanto al primo, il Santo Padre ribadì l’inderogabile esigenza, che i beni creati da Dio per tutti gli uomini indistintamente, potessero equamente affluire a tutti, secondo dei principi di giustizia e di carità.
Lo Stato oltre ad intervenire in funzione equilibratrice nel mondo del lavoro, era chiamato a «tutelare l’intangibile campo dei diritti della persona umana».
Il benessere generale di un popolo, nel quale era essenziale il diritto di tutti all’uso dei beni terreni, era conforme «all’intento voluto dal Creatore». La ricchezza di un popolo non andava commisurata all’abbondanza dei beni stimati nel loro valore complessivo, bensì in base alle opportunità ad accedervi fornite ai singoli membri di una data collettività.
Il secondo fattore richiamato dal Papa per l’armonioso svolgimento della vita sociale era il lavoro, configurato come un diritto–dovere naturale, per provvedere alla propria vita ed a quella dei propri figli. Il lavoro e la proprietà privata dovevano concorrere, in ottemperanza ai divini disegni, al perfezionamento della vita della famiglia, che era il terzo elemento evocato nel documento pontificio quale pilastro, con gli altri due, della vita sociale ed economica. Il Pontefice auspicò l’estensione della proprietà agricola ovunque nel mondo, per il progresso del genere umano, cui concorrevano anche i flussi emigratori, nel momento in cui tutte le famiglie – disse – «riceveranno un terreno, che sarà la loro terra patria nel vero senso della parola».

Verso la fine del successivo anno di guerra, nel radiomessaggio del Natale 1942, Papa Pacelli- precorrendo in questo Giovanni XXIII- affermò, «che bisogna essere risoluti contro l’errore, sia pure che si deve essere pieni di riguardo verso gli erranti e con l’animo aperto per intenderne aspirazioni, speranze e motivi».
Per il tramite pacelliano, durante le tenebre della dittatura fascista, per quanto in particolare riguardava la situazione italiana, sopravvissero per provvidenziale coincidenza, i raggi di luce di un liberalismo sociale che nel laico Giolitti avevano avuto il più coerente e lungimirante interprete.
Cardini del pensiero politico, economico e morale del programma giolittiano erano stati, infatti, l’impulso all’associazionismo operaio ed all’organizzazione mutualistica, particolarmente cari alla Chiesa che sin dal sec. XIX aveva creato una vasta rete solidaristica “bianca” in contrapposizione a quella “rossa”; la valorizzazione del lavoro (l’individuo che lavora e vive del suo lavoro, non è mai un uomo pericoloso  – aveva detto lo statista in un celebre intervento alla Camera), la cura dell’istruzione e l’istanza per dei salari congrui.
Un’ulteriore sintonia è dato cogliere fra la sollecitudine manifestata da Papa Pacelli nei riguardi del mondo agricolo, sulla scia della tradizione della Chiesa, e l’attenzione che sin da mezzo secolo prima aveva caratterizzato gli esordi politici dello statista di Dronero, il quale,  in un intervento alla Camera del 12 marzo 1885,  aveva auspicato una serie di misure concrete, anche in campo fiscale, in favore delle campagne, così concludendo «una solida finanza non può essere fondata sulla miseria dei proprietari e delle loro classi agricole».

Questo rapido excursus comparativo vuol rimarcare che, seppure inconsapevolmente, Pio XII contribuì a tenere alta la fiamma della libertà  anche economica, nel contesto di un dirigismo totalitario che nel campo comunista, come in quello nazifascista, traeva le sue origini più remote dallo Stato etico di hegeliana memoria.
Verso la fine del conflitto mondiale, il Romano Pontefice nel radiomessaggio alla vigilia del Santo Natale, il 24 dicembre 1944, espresse un pregnante concetto di democrazia, che doveva essere sempre rispettosa della legge morale, poiché era inaccettabile che tutto ciò che fosse stato deciso dalla maggioranza, fosse da ritenersi di per sé vero e buono, anche se in contrasto con tale legge. Va da sé che la visione pacelliana non riguardava l’etica laica in genere, bensì quella cristiana in particolare; ma la differenza fra le due non era così marcata, poiché entrambe potevano convergere su quel comune patrimonio di una naturalis ratio, che sarebbe stata evocata dallo stesso Papa Ratzinger in uno scambio epistolare con il presidente del Senato, il laico Marcello Pera.
Terminata la guerra, con il suo bagaglio di morte, di atrocità e di crimini contro l’umanità, che avrebbero continuato a lungo a pesare sulla storia di una civiltà condannata a vivere il nuovo dramma della divisione del mondo in due blocchi, occorreva procedere ad una ricostruzione non solo materiale, ma anche morale di tutto ciò che era andato distrutto.
Andava ripristinata innanzitutto la dignità dell’uomo, schiacciata dal nazionalsocialismo, come dal comunismo, recuperando i valori dello spirito e della libertà di espressione.
Dieci anni dopo l’avvio della ricostruzione, è interessante riportare il pensiero di Papa Pacelli, che volgeva al termine delle sue giornate terrene, in un campo di forte valenza sociale, come quello della politica fiscale. Nell’allocuzione tenuta al “Congresso dell’Associazione fiscale internazionale”, il 2 ottobre 1956 il Santo Padre affermò che «i criteri della giustizia fiscale derivano dai principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa, e anzitutto dal principio di solidarietà, da cui discende il dovere di ciascun cittadino a sopportare una parte del gravame delle spese pubbliche».
Lo Stato, per converso, doveva applicare nei suoi rapporti tributari con i consociati, il principio di sussidiarietà. In effetti – proseguì il Pontefice – la pressione fiscale era aumentata soprattutto per «l’estensione smisurata delle attività dello Stato, dettata troppo spesso da ideologie false o malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio delle preoccupazioni di un ordine affatto diverso. L’imposta non può quindi divenire mai per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare l’ammanco cagionato da un’amministrazione imprevidente, per favorire un’industria o una branca di commercio a svantaggio di un’altra egualmente utile. Lo Stato dovrà astenersi da qualsiasi spreco del denaro pubblico».
Parole tristemente profetiche contro il clientelismo, la finanza allegra ed il fiscalismo oppressivo che avrebbero segnato l’Italia per parecchi decenni! Ed ancora il Papa osservava: «Spesso le imposte troppo onerose opprimono l’iniziativa privata, frenano lo sviluppo dell’industria e del commercio, scoraggiano le buone volontà».
Se lo Stato vessava il contribuente, concluse il Pontefice, rischiava di «demoralizzare i suoi cittadini e di incoraggiarli all’evasione fiscale ed all’inganno».

Nell’Italia della “ricostruzione”, dopo la breve parentesi del Presidente provvisorio De Nicola, sul Colle del Quirinale era asceso un uomo che, pur espressivo della cultura laica, manifestò un sentire sovente in oggettiva sintonia con quello proprio dell’inquilino del Colle Vaticano: Luigi Einaudi, il più grande economista italiano del secolo XX.
Anche lui ebbe una spiccata predilezione per la terra, per le attività produttive ad essa legate e per i valori espressi dal mondo rurale in genere, quali l’operosità, lo spirito di sacrificio, la sobrietà, il risparmio, la responsabilità, la solidarietà.
Nel merito specifico dell’evasione fiscale, ricordiamo che l’ Einaudi asserì che «bisogna avere il coraggio di dire la verità ed affermare che in Italia il contribuente, il quale cerca di occultare parte del suo reddito al Fisco, compie un’azione di legittima difesa». Sulla stessa linea Ezio Vanoni ammoniva che bisognava contenere il prelievo fiscale per disincentivare quell’evasione «che il singolo considera quasi una forma di legittima difesa contro un’imposizione che egli ritiene lesiva della sua sfera individuale».
Numerose sono le “sintonie” sulle quali altri studiosi potranno svolgere ulteriori  approfondimenti, fra il pensiero sociale di Pio XII e  quello dei grandi esponenti del liberalismo sociale. A noi basta  di aver evidenziato la dimensione di un Pontefice che, alto interprete delle cose Quae sunt spiritus, sapeva coglierne i necessari collegamenti con l’operare quotidiano nella Città terrena.

 

Avv. Prof. Tito Lucrezio Rizzo

(già Consigliere Capo Servizio Presidenza della Repubblica)

 

 

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