"Consegnare il giorno di oggi a quello di domani
custodendo la memoria delle tempeste"
Storie
Porta Coeli
Operare sull’arte, operare nell’arte.
Porta Coeli Foundation e il contemporaneo in Basilicata
La storia dei fenomeni artistici in Basilicata, anche se non sempre appare lampante, è anche e soprattutto una storia di operatori culturali. Sulle pagine del Circolo La Scaletta, che ha segnato in maniera determinante aspetti del destino della città di Matera, una constatazione di questo tipo diviene di per sé autoevidente.
Ma la frammentarietà demografica, territoriale, culturale della regione, unite a forti tassi di emigrazione giovanile, alla stagnazione economica e a una densità abitativa scarsissima in un’area dall’orografia sfidante, fanno sì che le occasioni di emersione di una coscienza collettiva che si approvvigioni del lavoro degli artisti nel contemporaneo siano drammaticamente rare. Se filtriamo attraverso questa lente il tema della cura dei fenomeni artistici da e per il territorio, vediamo decadere una parte rilevantissima dell’attenzione delle istituzioni ai fenomeni culturali, che si esaurisce spesso in un eventificio di stampo estivo e vacanziero.
Sagre, percorsi enogastronomici e grandi e piccoli attrattori congegnati allo scopo, prendono sempre più il posto, nella definizione dei destini comunitari dei diversi borghi lucani, delle ritualità religiose, che pure, tra mille lati controversi e prima di una inevitabile secolarizzazione, erano in grado di conservare la capacità di elaborare tensioni collettive. Da questo meccanismo resta fuori qualche festival – talvolta buono –, qualche premio, l’attività di presidio di diverse fondazioni – quasi tutte pubbliche –, sparutissime gallerie commerciali che in ancor più sparute occasioni intendono sobbarcarsi l’onere di costruire un pubblico e una scena, oltre a nebulose impossibili, da sistematizzare, di iniziative episodiche e frammentarie, dettate dall’occasione e non certo dalla visione.
Se dovessimo trarre un bilancio sul ruolo dell’arte contemporanea nell’elaborazione di visioni collettive in regione, ciò che troveremmo sotto la linea di frazione non potrebbe che essere sconfortante. Chi sono gli artisti che operano sul territorio? Di quali temi si occupano? Dove si incontrano, dove ci si imbatte nel loro lavoro, dove è possibile interrogarli a proposito delle grandi questioni della contemporaneità? In che modo si connettono alle vicende della vita e degli immaginari dei suoi abitanti? In che modo si formano gli artisti emergenti?
Quali stimoli offriamo loro? Quali assicurazioni diamo loro che investire a beneficio della società nell’elaborazione di un percorso artistico sia una scelta di cui si renderà loro merito?
Qualcuno potrebbe obiettare che un territorio con pochi abitanti e nessuna centralità economica non possa che essere fisiologicamente sguarnito di centri di attenzione ed elaborazione dei fenomeni artistici su base più o meno territoriale: nulla di più errato, in un contesto in cui le metropoli sono affamate di alterità e in cui le reti sociali traboccano di richieste di modelli di consumo alternativi – ma pur sempre di consumo – in cui fingere atmosfere ed esperienze che possano far subodorare modalità di vita più radicali e fondate. Un ambito “merceologico” in cui la Basilicata avrebbe bacini di potenziale vastissimi e quasi del tutto inesplorati.
Dicevamo: operatori, non solo testimonianze individuali. È decisamente tramontata perfino la Matera di Luigi Guerricchio, come tramontata è la Potenza di Antonio Masini, con epopee cittadine che non possono più porsi il problema di rappresentarsi attraverso un’icona artistica che sia coerente, solida, organicamente votata all’arte senza facili e labili arrivismi. Se poi negli anni ’80 fenomeni come la rivista Perimetro erano in grado di offrire una referenza stabile per il dibattito e per la posizione dell’arte contemporanea nelle vicende collettive, oggi è perfino complicato per gli artisti lucani che operano dentro e fuori dalla regione avere punti di riferimento, di interlocuzione, di interfaccia con i territori di provenienza perché prendano anche solo atto della loro esistenza.
Nel 2019 ho cominciato a collaborare stabilmente con Porta Cœli Foundation. La fondazione mi aveva conosciuto nelle vesti di artista, con una mostra personale nel 2016: si chiamava Un’indagine, e già in quell’occasione mi ero occupato di sistemare racconti e nessi logici, di creare tassonomie e architetture tra immagini trovate e non prodotte, di generare archivi a partire da bacini informi di dati. Non mi è parso in alcun modo un salto nel vuoto, quindi, provare a guardare il fenomeno artistico dall’altra parte, anche dopo che con Dario Carmentano e il Gruppo di Intramœnia (Potenza, Museo provinciale, 2017) ci eravamo già spesi in diversi tentativi di strutturare l’iniziativa e la percettibilità dell’arte contemporanea in Basilicata.
Porta Cœli Foundation, già da qualche anno, aveva intrapreso alcune attività di circospezione, diventando, nei fatti, uno dei pochissimi riferimenti di longevità apprezzabile per chi volesse arrischiarsi a portare alla pubblica consapevolezza il prodotto del proprio lavoro artistico.
Con la presa in carico della sua direzione artistica si è provato a sistematizzare ed enunciare l’approccio curatoriale, a definire uno scopo e una strategia che potesse far trasparire il senso di una militanza intorno alla presenza dell’arte sui territori. Un concetto che provo spesso a esporre in queste forme: chi non ha letto Flaubert non può avere la percezione che la profondità della propria esperienza vitale manchi di qualcosa, e può certamente condurre un’esistenza piena e appagante anche senza incappare mai nella sua letteratura. Ma la società è tenuta in ogni caso non solo a mettere tutti nelle condizioni materiali di poter accedere a quel patrimonio, ma anche e sopratutto a costruire infrastrutture e interfacce che facilitino la penetrazione di quella consapevolezza del patrimonio nella vita di tutti.
Cioè a costruire, paradossalmente, il bisogno, la richiesta, il senso della mancanza di Flaubert nella vita di chi non ne rileva l’esistenza, e tantomeno l’utilità. L’attività di Porta Cœli Foundation nell’arte segue uno schema di affine “ostilità”: probabilmente senza la percezione dell’arte contemporanea condurreste una vita più serena e sareste meno vulnerabili rispetto alle ansie e alle irresolutezze dei nostri tempi. Ma per chiunque intenda la cultura come una componente fondamentale nella costruzione di un senso di partecipazione civile e non come un semplice diversivo del sabato pomeriggio, mettere in circolo e condividere le ansie e gli interrogativi dei propri tempi diviene un fatto che acquisisce i toni di quel rituale collettivo mancato, di qualcosa di fondamentale importanza, perché gli sprazzi e i frammenti di consapevolezza valgono sempre la pena, qualsiasi sia il loro costo.
Tra le altre attività della fondazione, in piena pandemia abbiamo inaugurato 404, programma per l’arte contemporanea di Porta Cœli Foundation, in cui la parola “programma” non può che enunciare una parte rilevante dell’obiettivo. Nella programmazione del web ogni errore risponde a una precisa tassonomia: 404 è il codice che indica quel frangente in cui, certi dell’esistenza dell’oggetto delle nostre ricerche e del percorso per arrivarvi, la destinazione, comunque, non si trova. Spesso si pensa ai processi dell’arte contemporanea come a ricerche programmaticamente prive di meta: una strategia che garantirebbe la possibilità di far emergere soluzioni non previste, e quindi l’innovazione dei linguaggi.
Auspicare l’avvicendamento continuo e sistematico del nuovo è però un’esigenza dei mercati più che delle società. La nostra esperienza culturale, prossima e globale, ci suggerisce urgenze diverse, forse più ordinarie ma anche più radicali e meno aleatorie. 404 vuole offrire un contribuito alla ristrutturazione di un’aspettativa di senso, di gesti estetici che sappiano concedersi di avere un peso, di un ruolo dell’arte nei sistemi della comune cognizione del presente. Vuole lavorare sul possibile spazio della riconnessione tra l’agire dell’artista e la discussione collettiva, ristabilendo i collegamenti necessari e offrendosi come interlocutore per esperienze potenziali, per concedere la possibilità di trovare allorquando qualcuno si prefigga di cercare.
Negli anni terribili 2020 e 2021, negli angusti spazi residui che erano consentiti alle attività espositive, abbiamo inaugurato le prime due tappe del programma: Mariano Silletti con Postille su Demikhov, e Marcello Mantegazza con Una specie di verità. Sono saggi di una modalità operativa che pone in atto quell’ostilità aperta all’assopimento delle contemplazioni estetiche. Dalla posizione di gravoso “privilegio” di uno spazio per l’arte no-profit, Porta Cœli Foundation dismette l’ossessione per il nuovo e rovista negli studi degli artisti per attraversare trasversalmente le loro carriere, i loro percorsi, i loro itinerari mentali, le variazioni che sembrano dettare alle visioni del mondo.
Prova quindi a imbastire quelle interfacce, le infrastrutture, i dispositivi di un’azione di narrazione e permeabilità del lavoro sull’arte del presente. In un tempo in cui il lavoro è parcellizzato e alienato per mansioni e competenze, la società subappalta il lavoro sugli immaginari e la vita dello spirito agli artisti. Ma la privazione omeopatica dell’arte nella vita civile ha fatto in modo che quel vuoto di senso creato negli individui non venisse che lievemente disturbato da pulsioni coattive all’intrattenimento e alla distrazione.
Così come quando si scuote la testa per scacciare un pensiero che non ci piace ma che non riusciamo a neutralizzare, la società ha spesso espunto la corrosività dell’arte senza però riuscire a debellare il bisogno di ritualità, di interconnessioni, di piani simbolici condivisi in cui trasporre le contese strutturalmente fallimentari dell’esistenza.
Donato Faruolo
(Vicepresidente Porta Coeli Foundation)
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