"L'arte che si sottrae al flusso perenne per divenire forma,
è ciò che opponiamo alle tentazioni del caos"


Dietro le quinte

Del far mostre.

Qualche riflessione di uno storico dell’arte di altri tempi…

 

Quando ormai più di mezzo secolo fa cominciai a occuparmi di mostre, queste erano qualcosa di ben diverso dalle attuali esposizioni… E non parlo solo di un differente modo di presentare le opere, che era allora certamente più essenziale ed ovviamente privo dei sussidi tecnologici che ne sono attualmente parte integrante. Del resto, anche la professione degli storici dell’arte era a quel tempo sostanzialmente quella di studiosi che forse troppo poco si preoccupavano dei mezzi attraverso i quali comunicare efficacemente l’esito delle loro ricerche. Le mostre erano in genere il risultato di annosi studi di cui si intendeva dare conto, e venivano per lo più impostate e realizzate prevedendo un allestimento quasi sempre piuttosto essenziale ed un catalogo inteso come supporto per la conoscenza basilare di quanto esposto, e del relativo contesto, generalmente mediata attraverso ponderosi saggi critici. L’esigenza di una comunicazione rivolta anche a non esperti del settore era di fatto ignorata o ritenuta superflua, e del resto i visitatori erano, per la maggior parte, persone già motivate ed almeno in parte edotte. Taluni versanti della critica, però, e gli stessi operatori museali cominciavano a porsi interrogativi sull’efficacia della comunicazione, e in tal senso le sperimentazioni didattiche della Nuova Scuola e le lotte del ’68, per una democrazia anche culturale, non potevano non aver lasciato un segno nelle coscienze più avvertite.

 Nelle Soprintendenze si iniziava a parlare seriamente di didattica e della necessità di elaborare idonei strumenti, metodologie, linguaggi articolati per fasce d’età e differenti contesti sociali e in quasi ogni museo si avviarono le iniziative di una più o meno organizzata ed incisiva Sezione Didattica. Anche le mostre pian piano si dotarono di spazi destinati ad accompagnare i visitatori nella migliore comprensione di quanto esposto ed a tal fine si misero a punto linguaggi, strategie, programmi attraverso cui rendere il visitatore, qualunque ne fosse la base culturale, protagonista attivo e compartecipe di quello che oggi si definirebbe “l’evento” ma che allora era - ed intendeva essere - esclusivamente un’ operazione culturale. 

Una forte spinta propulsiva per lo sviluppo della didattica museale, di cui sempre più consapevolmente si avvertiva l’esigenza,  si ebbe poi con la presenza attiva, nelle Soprintendenze e nei musei, delle cooperative venutesi a creare in conseguenza della legge per l’occupazione giovanile n. 285 del 1977  le quali, formate per la maggior parte da archeologi, storici dell’arte e architetti, vennero a integrarsi anche di specifiche professionalità quali quelle dei laureati in pedagogia e in sociologia, che contribuirono a  dare una significativa svolta alla didattica museale. Grazie anche alle neoistituite Sezioni Didattiche l’attività con le scuole divenne presto intensa ed articolata. 

Le visite erano generalmente precedute da incontri di preparazione in classe e seguite da verifiche sull’efficacia dei metodi, strumenti e linguaggi che erano stati appositamente studiati e predisposti…. ma questa è un’altra storia. Facendo però un passo indietro, si può dire che ancora nel 1970 le esigenze di una comunicazione dell’arte specificamente rivolta ai non addetti ai lavori erano per la maggior parte dei casi pressoché ignorate o ritenute superflue e, del resto, i visitatori di mostre e musei erano sostanzialmente persone, come sopra accennato, già motivate ed in parte edotte. Così era in generale, anche se non mancarono tentativi e ricerche per coinvolgere emotivamente il fruitore tramite particolari accorgimenti nella presentazione delle opere e nella scelta degli strumenti di comunicazione; questo si verificava soprattutto nelle esposizioni di arte contemporanea, di più ostica comprensione ma che in qualche modo consentivano una maggiore “libertà di manovra”. Qui poteva addirittura accadere che l’allestimento stesso si facesse opera a cui il visitatore poteva accedere divenendone compartecipe e trovandosi talvolta letteralmente “immerso” in esso/a. Cito, a titolo esemplificativo, il caso della mostra La vitalità del negativo curata da Achille Bonito Oliva e realizzata a Roma nel 1970 nel Palazzo delle Esposizioni. A quel tempo ero ancora una studentessa ma già curiosa ed interessata alle sperimentazioni che stavano dirompendo come una sfida in un mondo che ci sembrava tutto sommato autoreferenzialmente statico nelle sue certezze. Ero piuttosto scettica ma, visitando la mostra, fui subito coinvolta in un percorso che mi imponeva la disponibilità ad una compartecipazione anche fisica alle opere presenti. Ricordo infatti che mi trovai ad un tratto a dover attraversare al buio un piccolo ambiente riempito, come una sorta di vasca, di palline di polistirolo che poi mi ritrovai in gran numero attaccate addosso e che per qualche giorno continuai a tirar via dal cappuccio del montgomery e dal risvolto dei pantaloni. Non rammento in effetti chi fosse l’autore di quell’ “opera”- o dell'istallazione, come cominciavano a chiamarsi quel tipo di realizzazioni - e neppure quale ne fossero il titolo e il significato ma solo la sensazione trasmessami dall’averne per un breve tempo fatto parte… e forse  era questo  lo scopo intenzionalmente, e con tutta probabilità anche provocatoriamente, perseguito dall’artista. 

Al di là di questa particolare esperienza debbo dire che le mostre di cui di lì a breve mi sarei dovuta occupare nell’ambito dei miei compiti professionali, erano altra cosa. Esse costituivano infatti essenzialmente un modo di presentare l’esito di studi, ricerche, restauri dei curatori e, soprattutto per i funzionari tecnico-scientifici del Ministero per i Beni Culturali (archeologi, storici dell’arte, architetti), un doveroso dar conto di studi, scoperte, restauri realizzati nel corso del loro lavoro di pubblici dipendenti. Si trattava, in definitiva, di un’ attività che veniva talvolta ad aggiungersi a quella ordinaria e che aveva essenzialmente un carattere scientifico e generalmente non perseguiva scopi di particolare spettacolarizzazione ma del resto non avevamo studiato per questo né ci era richiesto. I nostri compiti erano sostanzialmente di studio e di tutela, poi veniva la valorizzazione ma sempre nell’ambito della ordinaria gestione dei beni e delle funzioni di pertinenza. Al tempo, poi, i musei erano aperti solo al mattino e  noi eravamo tenuti a lavorare in ufficio dalle 8  alle 14, sabato compreso,  il che ci consentiva di andare nel pomeriggio a rintanarci in biblioteca, all’Hertziana, o a Palazzo Venezia per continuare gli studi e le ricerche essenziali al nostro lavoro ed incontrare, come in una sorta di amichevole cenacolo, colleghi del Ministero e dell’Università ed anche docenti italiani e stranieri, spesso di chiara fama e da cui non era raro ricevere incoraggiamenti e consigli. L’atmosfera, il fascino, il valore esperienziale e formativo di quelle occasioni erano qualcosa di unico ed inimitabile di cui ora più che mai sono consapevole e che certamente non trova minimamente confronto con l’attuale possibilità di effettuare indagini e consultazioni via internet, di sicuro tanto più facili e rapide ma spesso freddamente prive di un immediato e diretto rapporto dialettico che è indubbiamente parte essenziale e costruttiva della ricerca. 

Ma per tornare alle mostre, io, come dicevo, cominciai presto ad occuparmene, fin dai tempi dell’università. Allora infatti, parlo dei primi anni ’70,  non eravamo in molti a seguire i corsi di Storia dell’Arte e poteva così accadere che anche prima della laurea ci fosse data la possibilità di collaborare con le Soprintendenze di Stato nella redazione di schede per il Catalogo Unico del patrimonio storico artistico nazionale e con i musei per la didattica - essenzialmente la preparazione e conduzione di visite guidate e la redazione di testi illustrativi -  o come supporto nella realizzazione delle mostre. A me accadde proprio questo e furono esperienze fondamentali ed indimenticabili, che mi permisero di affiancare storici dell’arte che furono per me maestri al pari, e forse più, di Giulio Carlo Argan con cui mi sarei laureata. Come studente di storia dell’arte, feci esperienza di volontario presso i musei di Castel Sant’Angelo e del Palazzo di Venezia ed ebbi la possibilità di affiancare in varie occasioni Eraldo Gaudioso e Filippa Aliberti, entrambi storici dell’arte già della Direzione Generale Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione e poi, dopo la sua istituzione, del Ministero per i Beni Culturali. In loro, esperti ed appassionati funzionari, trovai quello che sui libri non c’era scritto e che all’università non era tra le materie d’insegnamento: l’etica professionale, la passione, il mestiere… Di quegli anni due esperienze ricordo in particolare come fondamentali per la mia formazione di futuro  storico dell’arte al servizio dello Stato: lo studio e la catalogazione degli arazzi di Palazzo Venezia e la loro presentazione nelle sale Regia, delle Battaglie e del Mappamondo, e la preparazione e il successivo allestimento della grande mostra di Castel Sant’Angelo degli affreschi realizzati alla metà del Cinquecento per Paolo III Farnese da Perin del Vaga, Pellegrino Tibaldi, Luzio Luzi, Domenico Rietti detto “lo Zaga”, Girolamo Siciolante da Sermoneta ed altri, esposizione che inaugurammo nel 1981 quando io, avendo sostenuto e superato il concorso per Ispettore Storico dell’Arte, ero ormai una giovane funzionaria del Ministero. L’esposizione di Castello, destinata a divenire una pietra miliare negli studi sulla Maniera romana, dava conto dei molti anni di approfondite e capillari ricerche dei suoi curatori (appunto, Eraldo Gaudioso e Filippa Aliberti) e si avvaleva anche della collaborazione di un comitato scientifico composto da un prestigioso gruppo di studiosi di fama internazionale tra cui Catherine Monbeig Goguel e Richard Harprat. Ricordo l’attenzione nella redazione dei due volumi del catalogo - tuttora testo fondamentale per gli studi sulla Maniera a Roma ed i cicli decorativi romani della metà e del secondo Cinquecento - e la cura con cui fu seguito tutto l’allestimento che comprendeva anche uno spazio a carattere specificamente didattico che mi fu affidato e di cui personalmente mi occupai. Nel catalogo Gli affreschi di Paolo III a Castel Sant’Angelo. Progetto e realizzazione, frutto di anni di studi, ricerche, riflessioni e confronti dei suoi autori - Gaudioso soprattutto - fu inserito anche un mio contributo sull’emblematica farnesiana che accompagnava il visitatore nella lettura storica e critica degli affreschi paolini del Castello dedicando un particolare approfondimento al significato delle imprese, degli emblemi e in generale delle immagini simboliche in essi presenti. Della mostra ricordo anche l’originale ed efficacissimo allestimento studiato dall’architetto Roberto Einaudi che presentava, sala per sala, i disegni preparatori per gli affreschi dell’appartamento farnesiano concessi in prestito dai massimi musei e collezioni del mondo, collocandoli immediatamente vicini a specchi che, riflettendo la decorazione di soffitti, volte e pareti,  consentivano al visitatore un diretto raffronto tra l’idea progettuale nelle sue varie fasi e la sua effettiva realizzazione.  La mostra era poi, come dicevo, corredata da una sezione didattica particolarmente curata mentre sul terrazzo dell’Angelo fu per l’occasione sistemata, a scopo permanente, una rappresentazione grafica del panorama di Roma, da lì fruibile a 360°, con i riferimenti necessari alla identificazione delle evidenze monumentali e paesaggistiche ravvisabili, iniziativa questa che oggi parrebbe scontata ma che allora si presentò, oltre che utilissima, anche originale e nuova. 

Dunque, se ho pur nella necessaria sintesi trasmesso il senso di quella mostra di ormai quarant’anni fa, dovrebbe essere chiaro come essa fosse il risultato di lunghi ed accurati studi, restauri, ricerche, collaborazioni scientifiche ed intendesse anche presentarsi come il doveroso dar conto di ciò che con le risorse economiche ed umane dello Stato si era acquisito e realizzato. A distanza di qualche anno lo stesso spirito e le stesse intenzioni animarono la preparazione e l’allestimento dell’esposizione che, sempre al Castello, potei realizzare grazie al fondamentale supporto scientifico di un gruppo di medievisti romani quasi tutti facenti capo alla cattedra di Storia dell’Arte Medievale de La Sapienza retta da Angiola Maria Romanini. La mostra, cui demmo il titolo Fragmenta Picta. Affreschi e mosaici staccati del medioevo romano, fu rapidamente allestita ed inaugurata nel 1989 grazie anche al fatto che i suoi curatori ed i redattori dei testi e delle schede erano già attenti studiosi e profondi conoscitori della materia ed avevano precedentemente acquisito materiali e risultanze documentarie e scientifiche sulle opere oggetto della esposizione ed in generale sul tema della stessa. Un punto questo, che sottolineo, per ribadire la differenza tra le iniziative di un tempo che costituivano il punto d’arrivo di lunghi e complessi studi e le recenti che spesso si sviluppano dalla preventiva scelta di un soggetto accattivante e di facile impatto su larga scala. Per la straordinariamente rapida realizzazione di Fragmenta Picta - imposta anche dalla necessità di evitare che alcune somme da tempo accantonate finissero in perenzione - fondamentale si rivelò la collaborazione dei Musei Vaticani tramite le figure di Sua Eminenza il Cardinale Noè e di Fabrizio Mancinelli, Direttore dei Reparti di arte bizantina medievale e moderna dei suddetti Musei. Mancinelli, che sarebbe purtroppo prematuramente scomparso nel 1994, ci offrì generosamente anche importanti opere recuperate nella loro identità grazie a sapienti ed allora ancora inediti restauri eseguiti nei laboratori vaticani, testimonianze, quelle, che contribuirono significativamente ad arricchire la mostra di nuove importanti acquisizioni e ad accrescerne il valore scientifico. Si poterono così, in sintesi, presentare al pubblico le concrete testimonianze di alcuni fondamentali cicli decorativi del Medioevo romano contestualizzandole nell’ambito delle coeve istanze e realtà storiche ed artistiche, ripercorrendone le vicende spesso complesse e frammentarie, ricomponendone le erratiche consistenze e dunque, in sostanza, contribuendo in modo significativo a restituire loro il valore dell’identità e del ruolo. 

Oggi questo non sarebbe forse possibile, perlomeno non con gli stessi tempi, lo stesso spirito, le stesse risorse perché nel frattempo il “fare mostre” non è più una delle attività di specifica pertinenza dei musei dello Stato o degli Enti locali, demandata per la sua attuazione alle idonee strutture interne. Negli ultimi decenni si è infatti venuta a creare una nuova professionalità che di questo particolarmente si occupa e che in qualche modo può dirsi più o meno diretta filiazione delle esperienze delle cooperative formatesi in conseguenza della nota legge n.285 del 1977 per l’occupazione giovanile, i cui componenti in gran parte successivamente transiteranno a vari livelli nei ruoli ministeriali. Di fatto le cooperative che si erano allora formate diedero un contributo talvolta fondamentale alle attività di comunicazione e didattica delle strutture museali ma quando, poi, furono sciolte accadde che per iniziativa di alcuni  professionisti, che ne avevano fatto parte, fossero create articolate organizzazioni di natura societaria con specifici obiettivi e dotate di professionalità in grado di fornire alla committenza pubblica o privata servizi e prestazioni tra cui mostre “chiavi in mano” ed a quelle  società verrà in taluni casi affidata, particolarmente dagli Enti locali,  anche la complessa gestione di strutture specialmente destinate a finalità espositive. Questo effettivamente comporterà alcuni sostanziali cambiamenti anche di mezzi ed obiettivi e perfino concettuali per quanto concerne soprattutto l’individuazione di temi ed argomenti - ma anche del linguaggio ed in generale della comunicazione - relativi all’ offerta espositiva di quelle organizzazioni che non poterono non riflettersi in maggiore o minore misura anche sulle mostre approntate dalle strutture interne al Ministero. E non poteva essere altrimenti. Se prima, infatti, anche la realizzazione di mostre ineriva alle competenze gestionali correnti o straordinarie dei musei e pertanto le rassegne e le esposizioni, permanenti o temporanee, erano gestite nella quasi totalità dei casi direttamente dallo Stato o dagli Enti locali, ora le cose volgevano verso un cambiamento in termini e in sostanza. Con la primaria esigenza di realizzare un guadagno a sostegno della loro complessa macchina organizzativa le mostre … perderanno l’innocenza. Rapidamente esse verranno in molti casi a configurarsi come qualcosa di a sé stante: l’evento confezionato per attrarre il pubblico, l’occasione ‘eccezionale, straordinaria, imperdibile’ di ammirare ‘capolavori unici, inediti, irripetibili’, spesso di inestimabile valore ma di fatto costretti a ripetuti spostamenti ed esposizioni per… guadagnarsi il pane. 

Emerge quindi la necessità di garantire alle nuove società a tal fine costituitesi una sopravvivenza, la quale è specificamente condizionata dalla capacità di attrarre pubblico pagante e, dunque, di produrre quell’utile che è conditio sine qua non per la sopravvivenza dell’intera struttura organizzativa. Un problema, questo, che lo Stato non si era mai posto, o perlomeno non in termini economici, considerando l’utile a livello sociale delle attività culturali, e in specie di quella espositiva, in una visione ben diversamente ampia ed articolata ed avendo, per questo, da sempre previsto nel bilancio appositi capitoli di spesa. Negli ultimi decenni, dunque, le mostre, per lo meno quelle realizzate da specifiche società, hanno il profilo e l’impostazione di una operazione economica oltre che culturale, in cui anzi l’efficacia della prima risulta condizionante rispetto alla valenza della seconda. Nulla di male in teoria: anche fare mostre può essere un mestiere, anzi, direi che deve esserlo se si vuole raggiungere con i giusti mezzi e strumenti lo scopo di una efficace trasmissione della conoscenza ma, attenzione… purché non si perda di vista il principale obiettivo della cultura che è la crescita della società in una visione certamente più ampia e completa del mero riscontro economico.  Purtroppo, però,  il processo avviato è rapidamente sfuggito di mano e la necessità di conseguire un guadagno diretto dalle attività culturali, le mostre in primis, ha via via sempre più condizionato, e talora sviato, i fini scientifici delle iniziative realizzate dalle società che di questo vivono di questi… eventi; un termine improprio ed insufficiente ma sempre più in uso per definire quelle che dovrebbero rientrare tra le ordinarie attività di comunicazione sullo stato dell’arte, sugli studi, temi e protagonisti ad essa inerenti,  sul suo significato. Un ponderato equilibrio nella scelta di toni non estremizzati è però ormai cosa rara: sempre più spesso, infatti, assistiamo al prodursi di mostre incentrate sui protagonisti più noti e celebrati dell’arte - Raffaello docet - i cui titoli sono concepiti per attirare il visitatore, ed è pressoché scontato che le presentazioni alla stampa abbondino di termini quali  “unico”, “straordinario”, e sottolineino l’“eccezionalità” dell’evento in cui si presentano “per la prima volta” questa o quell’opera in realtà già abbondantemente viste o da sempre visibili nei musei di appartenenza; se poi dell’artista possono essere poste in risalto difficoltà caratteriali e/o ambiguità sessuali,  se ne può ventilare il coinvolgimento in un delitto, o se egli ha perlomeno avuto l’accortezza di aver belle fattezze e possibilmente di morire in giovane età…. be’, il gioco è fatto! 

Ma non basta: accanto a queste mostre ecco il proliferare di comunicatori dell’arte che ne ricalcano in televisione, sul web o con pubblicazioni di “pronta beva”, il solo apparentemente innocente modello.  Non parlo naturalmente di figure colte e raffinate come il compianto Philippe Daverio, con cui ho avuto indimenticabili occasioni di incontro, e neppure di professionisti di livello come Corrado Augias e gli Angela padre e figlio; parlo di disinvolti comunicatori che confondono la semplificazione con la banalizzazione e la storia, compresa quella dell’arte, con una più o meno fantasiosa aneddotica. Lo scopo di chi ha interesse a coinvolgere davvero tutti nell’arte e a farla conoscere vorrebbe invece che questa fosse considerata sì qualcosa di speciale ma al tempo stesso di normale, in particolar modo qui in Italia ove, connaturata e ampiamente diffusa, essa è da scoprire e riconoscere nelle sue molteplici e non scontate forme, spesso accanto a noi. Quanti, infatti, dei romani disposti a fare lunghe ed estenuanti file per ammirare magari solo rapidamente un’opera di Caravaggio in mostra non sono mai entrati nelle chiese di Santa Maria del Popolo, di San Luigi dei Francesi, di Sant’Agostino o alla Trinità dei Pellegrini dove le tele del maestro sono spesso nella posizione e nelle condizioni di luce e atmosfera per le quali lui le concepì così e solo così? E ancora, quanti di quelli che si adattano a pazienti, attese per potersi avvicinare anche solo rapidamente alle opere esposte, e spesso in situazioni di condizionata e disturbata condivisione, sono andati a vedere le stesse nella Galleria Borghese, ai Musei Capitolini,  o ai Musei Vaticani o negli altri musei e gallerie di Roma come di Milano, Firenze, Venezia, Parma, Napoli, Palermo, di tutta Italia, che in ogni suo centro è ricca di storia e di preziose testimonianze d’arte ancora perfettamente inserite nel loro contesto. I musei, poi, sia statali sia degli enti locali, offrono ormai per la maggior parte ampie disponibilità di orario che consentono una tranquilla, gratificante e ben più coinvolgente fruizione delle loro collezioni. E come riprodurre nella asettica atmosfera di uno spazio espositivo la profonda, intima sensazione che si prova nel muto dialogo con un’opera ancora esposta nel contesto che l’ha vista nascere e/o che da secoli la conserva, sia questo un’antica nobile dimora o una piccola pieve di campagna? Eppure di questo fenomeno, di questa significativa e significante alterazione poco si parla ma già se ne colgono i distorcenti effetti e poche ormai sono le offerte di esposizioni che si pongano “semplicemente” come esito e comunicazione di studi e ricerche invece che come eventi imperdibili, unici, eccezionali. 

Questo non fa bene all’arte e non ne fa capire la straordinaria normalità o normale straordinarietà, non la fa vedere per quello che è: l’immagine della storia espressa attraverso le capacità, la sensibilità, la cultura, il vissuto di chi ha realizzato un dipinto, una statua, un edificio in quel determinato tempo, luogo, spazio. Non fa comprendere che un’opera d’arte non è tale in quanto appartenente ad una determinata categoria - pittura, scultura, architettura….- e che definirla arte perché si presenta sotto la forma di un quadro o di una statua è comodo ma non esaustivo né condivisibile; che un’opera, foss’anche un capolavoro, non può essere considerata una mera espressione di genialità ma piuttosto la manifestazione visibile di un determinato contesto storico e culturale mediata dalla vicenda individuale, dal carattere e dalle capacità interpretative e tecniche del suo autore in una sinergia unica ed irripetibile. Una mostra dovrebbe spiegare ciò, e farlo con toni sommessi quanto comprensibili e profondi, che suscitino interrogativi magari senza risposta, piuttosto che dar risposte univoche a disutili domande; che avvicinino ad ognuno di noi i protagonisti dell’arte, che erano uomini e nella propria umanità intingevano il pennello o tempravano lo scalpello o puntavano il compasso, rendendoli capaci di suscitare emozioni attraverso linguaggi che sono comunque umani e perciò anche nostri. Che questo sia possibile è certo, ma altrettanto lo è che dipenda dalla volontà della committenza, dalle scelte organizzative, dalla consapevolezza e preparazione dei curatori della mostra, dalla capacità di chi ne trasmette il senso e il significato.  

Quanto un diverso modo di comunicare l’arte sia ormai necessario, può essere esemplificato da un piccolo aneddoto che mi vide in qualche modo coinvolta una decina di anni fa e da cui trassi più di uno spunto di riflessione: mi trovavo nel 2011 a visitare, alle Scuderie del Quirinale, la mostra dedicata a Lorenzo Lotto quando in una sala notai un gruppo di signore di una certa età, ben messe e ben vestite, che attorniava un giovanotto, evidentemente la loro guida. Mentre lui parlava cercando di illustrare nel modo migliore la storia e la vicenda delle opere e del loro autore, notai che una delle signore si era staccata dalle altre e guardava invece attentamente, sulla parete di fronte, un dipinto raffigurante San Gerolamo penitente in solitaria preghiera, un tema, questo, che il Lotto aveva ripetutamente trattato. L’intensità con cui la signora fissava la figura del Santo, percorrendone con lo sguardo le fattezze e soffermandosi sulla crudezza di taluni particolari come i piedi scalzi e nodosi del vecchio, che ben ne rappresentavano l’intensità della scelta ascetica, mi colpì. Ammirai quella capacità di cogliere l’emozione che il dipinto trasmetteva e, più ancora, quando notai che la signora accennava con una mano verso un’altra visitatrice, evidentemente amica, invitandola ad avvicinarsi, cosa che l’altra fece. Entrambe, davanti al San Gerolamo sembravano rapite ed io, quasi commossa da tale manifestazione di sensibilità, mi avvicinai per cogliere qualcosa del loro dialogare sottovoce. “Lo vedi” diceva la prima “lo vedi, ce l’ha anche lui”, “sì” rispondeva l’altra “è vero, ce l’ha, ce l’ha anche lui”. Parlavano sommessamente, indicavano il Santo e le sue membra provate dalla ascesi della preghiera e dal digiuno ma in particolare guardavano in basso, verso la parte inferiore del dipinto ed allora mi avvicinai ulteriormente a loro per rapire qualche altro brano delle loro impressioni. Fu così che capii cosa in particolare le aveva colpite e rese così partecipi dell’opera, cosa insomma condividessero così intimamente e profondamente con il San Gerolamo … “Eh sì, è proprio vero, ce l’ha anche lui le cipolle ai piedi” diceva una mentre l’altra annuiva quasi commossa dalla scoperta di quel particolare, l’alluce valgo, che evidentemente lei e la sua amica condividevano con il Santo e glielo faceva sentire vicino, “umano” più e meglio di tutte le dotte spiegazioni della brava guida. Lì per lì ci rimasi molto male, mi chiesi cosa ci fossero andate a fare quelle persone alla mostra, forse solo per darsi un’aria intellettuale, ma mi consolai pensando che avevano comunque fatto guadagnare qualcosa alla loro guida, certamente un giovane laureato in storia dell’arte in cerca di una improbabile occupazione. Con il tempo e maggiore saggezza diedi però un diverso valore a quell’episodio e mi convinsi ancora di più della importanza di una comunicazione didattica idonea, studiata nel linguaggio, nei temi e nei modi per raggiungere chi ne fruisce e lasciare in lui qualcosa in più che lo incuriosisca, che lo arricchisca, che gli offra spunti di riflessione attraverso sempre e comunque il medium del suo essere, del suo sentire, della sua esperienza di vita e della sua possibilità e capacità di elaborarla. 

Dunque, per tirare le somme da questa rapida e forse troppo personale digressione, una sfida non da poco si propone ormai a chi intende trovare una utile ed opportuna mediazione tra le due posizioni che ho cercato sia pur sinteticamente di illustrare:  tra le esigenze di bilancio di chi ha fatto della organizzazione di mostre una professione e le istanze “puriste” di coloro che  in quelle vorrebbero vedere in primis  la piena attendibilità scientifica, la complessità  e il rigore metodologico della ricerca… ci si riuscirà? Lo spero, anzi ci credo: le tecnologie di cui oggi disponiamo e che dobbiamo imparare ad usare correttamente ed utilmente sono mezzi efficaci che coadiuveranno in modo sempre più ampio, diffuso, pertinente gli studiosi ed i tecnici nella preparazione e nell’allestimento di mostre come anche nella presentazione museale permanente accompagnando il visitatore nell’approccio e nella conoscenza di un’opera, di un autore, di un momento o di un movimento nella loro vicenda e nel loro contesto come pure negli aspetti anche materici che ne hanno costituito il linguaggio, formulato il messaggio e che ne racchiudono l’interpretazione. Dalla lettura di un dipinto, di una scultura, come ascoltando una sinfonia o entrando in un antico edificio, trarremo allora una più ampia e diversa consapevolezza di un momento storico, anche lontano nel tempo e nelle diversificazioni culturali, che scopriremo però fare in qualche modo parte della nostra identità personale e collettiva, traendone spunti di riflessione, emozioni consapevoli e in definitiva l’arricchimento della nostre capacità di comprensione di noi stessi e dell’altro.                                       

 

Prof.ssa Alessandra Ghidoli

(Storico dell'Arte, già funzionario presso il MiBACT

e presso il Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica)

 

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