"Perché gli uomini creano opere d’arte?
Per averle a disposizione quando la natura spegne loro la luce"
Elogio dell'Arte
ARTE E IDENTITÀ DELLA SPECIE UMANA
In relazione all’ipotesi di un’arte necessaria per la sopravvivenza dell’identità umana, si può pensare ad un’arte organica di carattere non normativo ma biologico di cui ha parlato, con la veggente lungimiranza che solo i poeti hanno, Osip Mandel'štam: le rappresentazioni vanno intese «non solo come un dato oggettivo della coscienza, ma anche come organi dell’uomo, esattamente alla pari del fegato, del cuore».
Una riflessione illuminante a cui sembra rispondere idealmente Gottfried Benn: «per colui che si sforza di dare espressione al proprio interno, l’arte non è qualcosa di pertinente alle scienze umane, ma qualcosa di fisico come le impronte digitali».
«La pittura non è pura pennellata» – ha detto Ennio Calabria – «non è qualcosa di esterno a te, ma è il tuo liquido biologico, un tessuto, come se tu trasferissi qualcosa di fisiologico sulla tela. […] Io sono e traduco il mio essere nella pittura.
Questa è l’unica funzione che oggi può avere la pittura. L’unica funzione». Sembra giunto il momento di aprire nuovamente le porte all’inconscio, ora espulso dalla società dell’anestetizzazione levigata. In questo contesto dovrebbe tornare ad avere importanza anche la messa in gioco della totalità psicofisica dell’artista, nel cortocircuito fra mano, occhio e cervello di cui, ad esempio, aveva parlato Giorgio de Chirico: «La mano dell’uomo possiede una agilità che non è stata concessa dalla Natura agli altri esseri viventi, quindi il cervello dell’uomo concepisce un’idea che la mano traduce ed esprime creando un oggetto concreto e tangibile. L’oggetto realizzato stimola poi il cervello al pensiero e al desiderio della perfezione».
Alla base di queste riflessioni c’è senza dubbio il pensiero di Konrad Fiedler: «Perfino nei tentativi più elementari di un’attività creativa figurativa la mano non fa ciò che l’occhio avrebbe già fatto; sorge invece qualcosa di nuovo, e la mano assume la prosecuzione di ciò che l’occhio fa e lo sviluppa. […] La credenza che nei casi più consueti di rappresentazione si diano modelli mentali di qualcosa che richiede soltanto l’attuazione in un materiale per apparire un’opera d’arte si fonda su un’illusione molto diffusa.
Ci si deve persuadere del fatto che ciò che merita il nome di rappresentazione artistica, innanzitutto non può sorgere in altro modo che attraverso il processo figurativo stesso.
Non bisogna dimenticare che la mano non esegue qualcosa che ha potuto già essere configurato nella mente, ma che il processo compiuto con la mano è soltanto il nuovo stadio di un fatto unitario e indivisibile che si prepara in modo invisibile nella mente, ma che può raggiungere quello stadio superiore dell’evoluzione soltanto mediante la manipolazione figurativa».
Non a caso, Paul Valéry aveva notato che i pittori pensano con le mani». Jean Arp ha raccontato: «Inizio a lavorare la materia senza sapere dove sto andando.
Qui sta il mistero: le mie mani parlano da sole. Tra loro e il gesso si intreccia un dialogo, come se io non ci fossi, non fossi necessario. Da lì nascono delle forme, bonarie o strane [..]».
L’opera d’arte, utile alla salvaguardia di un’identità specificamente umana, dovrebbe essere una presenza potente, originaria ed inequivocabile, fatta di intensità, incandescenza e rivelazione, in modo tale che ogni gesto, manuale o tecnologico che sia, diventi assoluto e faccia da soglia fra visibile e invisibile.
Secondo Shoshana Zuboff, «aziende come Google stanno costruendo un nuovo ordine economico la cui materia prima è l’esperienza della vita umana. Qualsiasi cosa facciamo vale come fonte di dati che servono non solo ai fini economici, ma a trasformare la vita stessa, secondo un meccanismo senza fine; il capitalismo della sorveglianza è un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita».
L’arte può liberarci da questa prigione invisibile, può immettere energie morali e creative anche nell’uso del web e delle tecnologie. L’arte può aiutarci a “permettere alla nostra anima di raggiungerci”, come dice un antico detto africano.
La domanda oggi irrinunciabile è: quale verità emotiva e dunque umana si invera nella forma?
Nella forma ci deve essere tutto, senza giustificazioni esterne, sociologiche, antropologiche che spesso invece la sostituiscono, tanto che andrebbe riscoperta e riletta la teoria della pura visibilità di Konrad Fiedler che, fra l’altro, notava: «Diremo eccellente un’opera d’arte solamente quando l’interesse alla rappresentazione visiva che si realizza nel processo figurativo sia riuscito a superare ogni altro interesse extra-visivo, il quale tende a perseguire risultati figurativi soltanto per scopi estranei alla visibilità».
Applicando questo criterio quante opere d’arte oggi potrebbero essere considerate “eccellenti” o anche soltanto degne di nota e di considerazione? Come scriveva Munch, «è impossibile spiegare un dipinto. La vera ragione che ha indotto a dipingerlo è l’impossibilità di spiegarsi in qualunque altro modo». E per Renoir, «l’essenziale di un quadro è quello che non si può spiegare».
Tutto è inutile se quelle opere non sono feconde, se non traspirano vita ed immaginazione. È indispensabile una sorta di “utopia pragmatica”, ovvero il gesto di un’arte infinita che tracci connessioni fra le cose, l’invisibile trama fra le cose, per arrivare a ciò che è segreto e sepolto, aggrovigliandosi alle radici stesse dell’essere.
E che attraverso il divenire della forma si addentri nell’inesauribile mistero dello sguardo, sempre nuovo in rapporto ai cambiamenti che ci circondano e coinvolgono. Oggi molti artisti, ciascuno in piena autonomia, lavorano sull’idea di ibridazione come difficile e mai definitivo rito di passaggio dall’invisibile al visibile.
Possiamo allora immaginare forme in transito verso il mistero, fluide, metamorfiche, impermanenti, non definibili secondo cifre cristallizzate, da manuale di storia dell’arte, icone bidimensionali o plastiche che spesso oltrepassano la pura, semplicistica separazione fra quadro e scultura.
Dobbiamo sperare in un’opera d’arte visiva carica di una verità al tempo stesso formale ed emotiva, autonoma come un organismo vivente, che renda evidente l’insufficienza delle parole che sempre più spesso, nel sistema dell’arte globalizzato, giustificano la stessa esistenza di lavori volti esclusivamente all’intrattenimento sotto le bandiere della moda e del mercato.
Dall’icona ibrida promana un nuovo spazio di immanenza visiva dove possono coesistere in libera osmosi molteplici forme in divenire,rafforzandosi a vicenda, attraverso la fluidità per vasi comunicanti di un inedito connubio in cui convivono semplice e complesso, infinito ed indefinito, stabilità ed instabilità, cultura individuale e culture plurali, ossessioni soggettive e pulsioni collettive.
Uno spazio labirintico dove non è possibile ordinare le gerarchie della ragione e del sentire, del percepire e dell’immaginare.
Immagini sostanziate dall’intensità di una simultaneità contraddittoria, in una riunione di categorie eterogenee che si trasformano in indizi del mistero.
Nella sua salvaguardia di un’identità integralmente umana, l’arte può riportare la profondità di una dimensione simbolica in quella realtà piatta e monodimensionale, presentista, a cui ci stiamo assuefacendo, percorrendo il mondo come zombie privi di qualsiasi punto di riferimento.
Del resto, si è perso l’homo simbolicus: preda di un narcisismo smisurato l’uomo vede solo se stesso nei selfie, vaga smarrito come homo consumens privo di memoria, di radici, di riferimenti simbolici.
L’arte può portare avanti la resistenza dell’umano di fronte ai pur inevitabili cambiamenti che ci aspettano. Giovanni Filoramo ha scritto, prospettando uno scenario inquietante, che «quella tecnologica sarà la religione del futuro. La Coscienza cosmica, come in Matrix è ora diventata ciò che c’è dietro il mondo pur sempre misterioso della Rete. Si tratta di una “realtà” invisibile che ispira e guida le nostre azioni».
Attraverso la tecnologia avverranno «trasformazioni velocissime che coinvolgeranno la mappa neurale, oltre che il corpo, il patto tra l’uomo e la tecnica diverrà un matrimonio tra parti che non si distingueranno l’una dall’altra». E come risposta ideale a questa prospettiva bisogna sempre tenere a mente, sia pur col beneficio del dubbio, quanto disse Albert Camus nella Conferenza di Atene del 28 aprile 1955: «[…] potremmo chiederci, e parlo sempre al condizionale, se proprio il singolare successo della civiltà occidentale nel suo aspetto scientifico non sia in parte responsabile del singolare fallimento morale di questa civiltà.
Per dirla diversamente se, in un certo senso, la fiducia assoluta, cieca, nel potere della ragione razionalista, diciamo nella ragione cartesiana per semplificare le cose, perché è lei al centro del sapere contemporaneo, non sia responsabile in una certa misura del restringimento della sensibilità umana che ha potuto, […], portare poco alla volta a questo degrado dell’universo personale».
E ha ragione Frie Leysen ad affidare idealmente agli artisti un ruolo fondamentale ma completamente trascurato nella società di oggi: «Credo che la maggior parte di noi non sia in grado di capire e gestire ciò che accade nel mondo, perché non abbiamo il tempo di riflettere, nonostante il bisogno di capire. La società sa organizzarsi affinché una categoria di persone si conceda il tempo per analizzare l’esistente e criticare la realtà: questi sono gli artisti».
Sempre di più, anche se non è certo una novità, ci si interroga sul ruolo e sulla sopravvivenza della pittura oggi. In realtà, essa è un linguaggio originario, psicofisico, quasi un archetipo espressivo legato all’identità umana, ed esisterà almeno fino a quando un bambino userà delle matite colorate, come amava dire Tancredi. La pittura come labirinto dei labirinti che ricorda l’avvenire e riscrive il passato in un attimo infinito, l’origine.
La pittura come capacità di guadagnare la preistoria di una tradizione, per dirla con Nietzsche, «un riconoscere, un ricordare di nuovo, un retrocedere e un ritornare a casa, in una lontana, antichissima comune dimora dell’anima».
GABRIELE SIMONGINI
(Critico e docente di storia dell’arte contemporanea,
Accademia di Belle Arti-RomaMedievalista)
Matteo Montani, La luce domani 2012. Olio e polveri di bronzo
Richter Gerhard, Abstraktes Bild (849-3) 1997. Olio su tela
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