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 "Perché gli uomini creano opere d’arte?
Per averle a disposizione quando la natura spegne loro la luce
"

 

Elogio dell'Arte

59a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia

 

Forse non ci resta che sognare un mondo migliore, e magari darci da fare per realizzarlo, visto quello sta succedendo intorno a noi. Sembra un po’ questo il messaggio che emerge dalla 59a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia che sarà visitabile fino al 27 novembre, ai Giardini e all’Arsenale. Solo durante la prima e la seconda guerra mondiale la più importante manifestazione d’arte contemporanea a livello globale era stata spostata di un anno, come è avvenuto per questa, causa pandemia.
E al Covid-19 si è aggiunto in questi ultimi mesi il dramma della guerra in Ucraina, tanto da rendere ancora più difficile da un punto di vista anche emotivo l’apertura di questa grande kermesse, abitualmente caratterizzata da uno spirito festoso che ora sembra quanto meno inopportuno. La mostra si intitola Il latte dei sogni, da un libro di favole dell’artista surrealista Leonora Carrington (1917-2011), in cui, come spiega Cecilia Alemani, viene descritto «un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé».
La Biennale si concentra su tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra. E gli artisti si sono posti e ci pongono molte domande fondamentali in questo periodo in cui la sopravvivenza stessa dell’umanità è minacciata.
Come sta cambiando la definizione di umano?
Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi? La mostra Il latte dei sogni significa anche il ritorno a stare insieme.
I numeri di questa Biennale da 18 milioni di euro sono importanti: 213 artiste e artisti (di cui ben 191 donne e 22 uomini) provenienti da 58 nazioni, con 180 prime partecipazioni, 1.433 fra opere ed oggetti. Gli italiani sono 26, quasi tutte artiste, fra cui dieci viventi, dalle decane Marina Apollonio, Tomaso Binga, Lucia Di Luciano e Grazia Varisco, che meritano giustamente una riscoperta, alle giovani Giulia Cenci, Chiara Enzo, Ambra Castagnetti. Inoltre partecipano 80 Padiglioni nazionali, fra cui quello dell’Ucraina mentre la Russia ha rinunciato.
Anche se la curatrice dichiara di non guardare mai a priori se l’autore di un’opera sia un uomo o una donna, è evidente un’impostazione al femminile, magari anche eccessiva, una sorta di risarcimento che ridimensiona la centralità del ruolo maschile nella cultura attuale.
Come sempre, ed è perfettamente comprensibile, non mancano opere ed installazioni gigantesche e spettacolari, da selfie, ma la novità di questa Biennale sta nel riportare al centro dell’attenzione il contatto fisico con l’arte, con tanti quadri, sculture, installazioni e con poca arte concettuale, non troppo spazio dato alle nuove tecnologie e niente che rappresenti NFT e Blockchain.
Soprattutto in pittura si avverte un’influenza fortissima del surrealismo, da protagoniste storiche come la stessa Carrington, Leonor Fini o Dorothea Tanning, fino ad artisti contemporanei come Jaider Esbell con i suoi mondi onirici in cui domina un horror vacui vegetale, Felipe Baeza con le sue inquietanti metamorfosi, Cecilia Vicuña (Leone d’oro alla carriera) con le sue figure fra il fiabesco e l’infantile e con la sua capacità di immaginare nuove mitologie personali e collettive.
Non mancano le star, che non deludono, come Katharina Fritsch (anche lei Leone d’oro alla carriera), Barbara Kruger, Rebecca Horn, Nan Goldin, solo per dirne alcune. Fra le opere più convincenti ce ne sono alcune fondate sul rapporto tra individui e tecnologia, come il video di Lynn Hershman Leeson che esplora la nascita di organismi artificiali mentre l’artista coreano Geumhyung Jeong evoca corpi robotici assemblati.
Sono stimolanti anche le cinque “capsule del tempo”, come le chiama la curatrice, piccole mostre tematiche a carattere storico (ad esempio, “Tecnologie dell’incanto”) che mescolano opere d’arte, oggetti trovati, manufatti e documenti per leggere in modi trasversali il cortocircuito fra presente e passato. 
Quanto mai deludente, per non dire scandalosamente debole, è la partecipazione italiana nell’ambito dei padiglioni nazionali, per la quale si potrebbe dire: «Troppo spazio e troppi soldi generano mostri».
È quel che accade, tristemente, nello sponsorizzatissimo Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, con un solo artista protagonista (per la prima volta nella storia dei nostri Padiglioni), Gian Maria Tosatti, scelto dal curatore Eugenio Viola. Intitolato poeticamente Storia della Notte e Destino delle Comete, l’allestimento di oltre duemila metri quadrati è il trionfo della desolazione, della povertà di idee e soprattutto è pretenzioso, ricostruendo con troppa artificiosità una fabbrica dismessa che testimonierebbe il crollo del sogno industriale italiano diventando anche, in corso d’opera, secondo l’umile e profetico artista, un emblema dei posti di lavoro lasciati frettolosamente per fuggire da Kiev o da Odessa bombardata, oltre che un simbolo del destino dell’umanità.
Tutto questo è costato circa due milioni di euro e ci si chiede come siano stati spesi questi soldi: seicentomila euro del Ministero della Cultura, un milione da Valentino ed il resto da un elenco talmente lungo di sponsor che occuperebbe una pagina intera.
Oltre tutto, questo squallido allestimento teatrale, in cui l’artista non sa dominare lo spazio, avrebbe semmai dovuto trovare posto alla Biennale Teatro e non in quella delle Arti Visive.
Fin dall’ingresso, rigorosamente contingentati uno alla volta, i visitatori disorientati trovano cartelli che ordinano il silenzio, per poi addentrarsi fra tubi penzolanti dall’alto e macchinari dismessi, fino ad arrivare alla sala più eloquente, dove una sfilata di vecchie macchine per cucire ci parla del crollo industriale italiano, scopiazzando una famosa installazione di Kounellis presentata a Cuba nel 2015 e che aveva ben altra potenza.
Non manca il marchio di fabbrica, è il caso di dirlo, dell’artista, con una rete di un letto abbandonato e tanta polvere. Ma c’è una speranza, sembra dirci Tosatti, partito dalla celebre dichiarazione di Pasolini, «darei l’intera Montedison per una lucciola».
Alla fine del percorso fondato sul nulla, ecco una distesa d’acqua nel buio (idea attinta dall’opera di Giorgio Andreotta Calò nel bel Padiglione Italia del 2017) e in lontananza lo scintillio di lucette che evocherebbero appunto le lucciole.
Sembra quasi che questa retorica esibizione di ascetismo moraleggiante messa in scena da Tosatti serva solo a purificare il grande spreco di soldi investiti per l’occasione da aziende ormai globalizzate che vogliono nobilitare i propri profitti su un palcoscenico così prestigioso come quello della Biennale per legittimarsi dal punto di vista mecenatistico.
E allora il vero Padiglione Italia va invece cercato nel Padiglione di Malta dove è ospitato il bravissimo nostro compatriota Arcangelo Sassolino capace di dire molto con poco, nell'installazione ambientale che reinterpreta la Decollazione di San Giovanni Battista (conservata nell'Oratorio di San Giovanni Battista dei Cavalieri nella Concattedrale di San Giovanni a La Valletta, a Malta) di Caravaggio e che produce gocce di acciaio fuso che cadono dall’alto in sette vasche riempite d'acqua: il metallo fuso crea una luce vivida e al contatto con l'acqua sibila, si raffredda e si ritira nell'oscurità, parlandoci del ciclo infinito della vita e della morte.

 

Gabriele Simongini
(Critico e docente di storia dell’arte
contemporanea, Accademia di Belle Arti, Roma)

 

 

Dante 2

Biennale, Jane Graverol, L’École de la Vanité, 1967.

Photo Renaud Schrobiltgen. Collection Anne Boschmans. Courtesy Schirn Kunsthalle Frankfurt. © SIAE

 

 

Dante 2

Biennale, Cecilia Vicuña, Leoparda de Ojitos, 1977

Collection Beth Rudin DeWoody Courtesy the Artist Lehmann Maupin, New York, Hong Kong Seoul, and London © ️ 2022

 

Dante 2

Biennale, Candice Lin, Seeping, Rotting, Resting, Weeping, exhibition view from Walker Art Center, Minneapolis, 2021.

Courtesy the Artist; François Ghebaly Gallery

 

 

Dante 2

Biennale, Andra Ursuţa, Predators ‘R Us, 2020.

Courtesy the Artist; David Zwirner; Ramiken, New York. © ️ Andra Ursuta

 

 

Dante 2

Biennale, Jaider Esbell, Amamentação, 2021.

Courtesy Galeria Jaider Esbell de Arte Indígena Contemporânea; Galeria Millan. © Jaider Esbell Estatee

 

 

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