"La poesia in quanto tale è elemento
costitutivo della natura umana"
InCanto Dantesco
Dante e l’utopia: dall’Impero all’Europa Unita
Nell’immaginario collettivo, il termine “utopia” designa una condizione o una prospettiva destinata a rimanere irrealizzabile, poiché non sarà letteralmente possibile attuarla “in nessun luogo” (dal greco ??, “non”, e t?p??, “luogo”).
Il vocabolo, benché il Sommo Poeta ci abbia dato in molte occasioni prova della sua grande abilità nel conio di parole nuove, non è un neologismo dantesco, ma deve la sua paternità al pensatore inglese Tommaso Moro, che intitolò Utopia l’opera, da lui composta nel 1516, in cui descriveva una immaginaria isola dell’Inghilterra abitata da una società ideale. Tuttavia, l’impianto concettuale della teoresi di Dante, ed in specie tutta la sua riflessione politica e teologica, presentano caratteri che non esiteremmo a definire utopici, da intendersi primariamente come speranza di una palingenesi morale e come monito per un rinnovamento politico e spirituale che possa coinvolgere tutte le sfere della vita dell’uomo.
Come è noto, nel De Monarchia Dante vagheggiava il sogno di un giusto bilanciamento tra il potere temporale, di stretta pertinenza dell’Imperatore, e quello spirituale, spettante invece al Vicario di Cristo, ossia il Papa.
Si tratta della ben nota teoria dei “due Soli”, entrambi necessari e complementari per illuminare la vita dell’uomo, unico essere del creato (Mon. III 14) situato a metà tra il corruttibile (il paradiso terrestre, ossia il mondo degli uomini) e l’incorruttibile (il paradiso celeste, ossia il mondo di Dio).
Dante è molto preciso nel delineare la genesi e i compiti di ciascuna delle due autorità: il potere temporale, che si basa sui bisogni naturali dell’uomo e persegue il suo benessere terreno, non deriva dal Papa, ma discende direttamente da Dio; prova ne è il fatto che Dio decise di farsi uomo nella figura del Cristo proprio durante il regno del primo Imperatore, Augusto.
Con formula perentoria (Mon. III 15), Dante afferma che «solo Dio sceglie, Egli solo conferma, poiché non ha un superiore» (“solus eligit Deus, solus ipse confirmat, cum superiorem non habeat”). L’imperatore Arrigo VII, che Dante esorta a scendere in Italia per porre fine alle continue lotte tra i Comuni e tra le fazioni interne ad essi che si lacerano in guerre civili, è per lui erede del sacro istituto dell’Impero Romano.
Questa indipendenza dell’Imperatore dal Papa, che è sembrata addirittura una anticipazione della cavouriana formula di “libera Chiesa in libero Stato”, viene attenuata, ma solo parzialmente, nel finale dell’opera, quando si afferma che «reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti» (“l’Imperatore usi quella reverenza verso il Papa che deve un figlio primogenito a suo padre”).
Non si tratta, a nostro avviso, di una dichiarata subordinazione dell’Imperatore al Papa (il che sconfesserebbe tutta la robusta argomentazione precedente), ma un modo di mediare tra i due poteri, la cui collaborazione soltanto può garantire la pacifica convivenza tra gli uomini (lo testimoniano, dal punto di vista retorico, le tante formule attenuative disseminate in queste pagine, come quodammodo, in aliquo, ecc.). Non bastò questa postilla, come sappiamo, a evitare la messa all’indice del De Monarchia nel 1559, accusato di deliri ghibellini da censurare senza riserve (la riabilitazione dell’opera, che si crede risalga al 1881 ad opera di Leone XIII, in realtà non è mai avvenuta), né ad impedire che il cardinale Bertrando del Poggetto desse l’ordine, come racconta Boccaccio, di bruciare già nel 1329 a Bologna tutte le copie manoscritte dello scritto dantesco.
Il mondo in cui vive Dante è però in grande fermento: le monarchie nazionali, in primis quella francese, stanno mettendo in crisi l’istituto imperiale. I Comuni sono in perenne lotta tra loro.
La Chiesa stessa è attanagliata dalla blanda cupiditas, lacerata dalla corruzione, dalla mondanità, dalla simonia. È qui che Dante ha una profonda intuizione: la guerra diventa l’elemento fondativo della società moderna. Come la Storia ha dimostrato, la lupa infernale, la cupidigia, alimenta la politica dei nascenti Stati nazionali, spinti dalla brama di potere e ricchezza, da ottenere con la forza e con le armi. La molteplicità dei singoli poteri, la distruzione del principio dell’unità politica europea, la guerra come strategia di base dei rapporti internazionali, sono i segnali di un mondo che prendeva direzioni opposte all’utopia dantesca.
Non a caso, l’equazione “frammentazione politica=guerra” è antitetica alla missione più importante dell’Imperatore:«ut scilicet in areola ista mortalium libere cum pace vivatur», ossia “far sì che in questa aiuola umana si possa vivere nella libertà e nella pace” (Mon. III 15.17, cfr. Mon I 14.7 «ut humanum genus…ab eo regatur et comuni regula gubernetur ad pacem»).
Si è detto spesso che Dante ha un’utopia regressiva, ossia non riesce a leggere la realtà a lui contemporanea, i rapidi cambiamenti in seno alla società, le spinte autonomistiche dei nuovi Stati, l’emergere della classe borghese e di quella mentalità protocapitalistica che incitava gli uomini a tentare “subiti guadagni”, e anela pertanto ad una reductio ad unum politica e spirituale.
E se poi osserviamo gli Imperi che si sono succeduti nella storia, essi non hanno fatto altro che sconfessare le speranze dantesche e testimoniare al contrario come l’Imperatore fosse non un garante della pace, ma un famelico lupo:basti pensare agli imperi di Carlo V, di Napoleone, del Terzo Reich, tutti animati da una smisurata volontà di potenza basata sulla guerra.
Tuttavia, se l’ideale imperiale di Dante resta utopico, in controtendenza rispetto al corso degli eventi, esso ha però trovato compimento, dopo 600 anni, nell’Unione Europea, unico organo sovranazionale capace di garantire quella pace di cui noi Europei andiamo oggi fieri, ma che nella dialettica tra Stati nazionali non eravamo stati in grado di raggiungere fino al 1948. Come l’Impero è pertanto l’unico luogo in cui può realizzarsi la felicità perché contiene il mondo intero, senza limiti di poteri giurisdizionali, così l’Europa è l’unica istituzione che può assicurarci una pace perpetua: l’utopia dantesca, in definitiva, era esatta.
Purtroppo il mondo è diventato molto più esteso e complesso rispetto ai tempi di Dante:l’Europa deve competere con altri “imperi” del globo, da quello americano a quello cinese, e per altri aspetti lo scontro planetario ha talvolta assunto anche le vesti di un clash of civilizations, come recita un famoso saggio di Samuel Huntington. E soprattutto, a reggere le sorti del mondo è il denaro, cui pure l’Europa, ormai sempre più litigioso assemblato di Stati che trovano parziale convenienza nello stare insieme, deve soggiacere.
Anche nella dimensione linguistica, il pensiero di Dante non rinuncia all’utopia. Particolarmente efficace è la formula con cui il Divin Poeta designa quella lingua volgare di cui va alla ricerca e che dovrebbe delinearsi come “cardinale, aulico e curiale” per poter diventare “illustre”.
Paragonandolo alla pantera che si muove ovunque senza mai farsi catturare, Dante dice del volgare illustre che esso «in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla» (“ha il profumo di ogni città ma non risiede in nessuna”, De Vulg. Eloq. XVI 4). Si tratta senza dubbio di una formulazione utopica anche nella lettera: questo volgare è ovunque, ma in realtà non è “in nessun luogo”; nessuno dei volgari d’Italia da Dante analizzati può fregiarsi di essere illustre, ma quest’ultimo deve essere creato partendo da quei volgari che possano già vantare all’epoca una onorevole tradizione letteraria (il toscano innanzitutto, poi il siciliano, l’emiliano e il lombardo).
Benché fosse di difficile applicazione pratica, la proposta linguistica di Dante aveva il merito di unificare la nazione italiana riconoscendole una identità artistica e culturale: la sua utopia si trasforma pertanto in un progetto che mira a unificare linguisticamente un Paese che dovrà attendere altri 500 anni per ritrovare la sua unità politica. L’Italia era già nata nel Trecento, ben prima di Vittorio Emanuele II: ecco la forza dell’utopia dantesca, anche questa, ancora una volta, esatta.
Ciò che in definitiva differenzia Dante dalle varie formulazioni utopiche della letteratura e della storia del pensiero politico è l’incrollabile certezza che anima il poeta. Aristofane negli Uccelli o ne Le Donne al Parlamento, Platone nella Repubblica, Tommaso Moro in Utopia, Campanella nella Città del Sole, per citarne alcuni, sono ben consapevoli che i mondi e le situazioni che essi descrivono non potranno mai realizzarsi “da nessuna parte”, e le loro utopie si configurano come aspirazioni ideali per sognare un mondo diverso e più giusto.
Dante è invece un intellettuale che crede fermamente in ciò che propone, non appare mai disilluso o sconsolato, e traspare sempre dai suoi scritti una concreta speranza che tutto ciò che immagina possa realizzarsi concretamente: le invettive contro la Chiesa e il Re di Francia, la denuncia del malcostume dei governanti, le esortazioni all’Imperatore, suonerebbero altrimenti inutili e catastrofistiche maledizioni nello stile di un Savonarola, piuttosto che sofferti ma meditati richiami ad un ordine universale realizzabile. La sua utopia non è pertanto negativa e disincantata, ma si presenta al contrario come un progetto in cui ogni cosa possa ben funzionare: è una eutopia, “un luogo buono” (dal greco e?, “bene” e t?p?? , “luogo”).
Del resto, la stessa Utopia di Tommaso Moro, complice la pronuncia inglese, intendeva conservare questa fascinosa ambivalenza oscillante tra l’??- e l’e?, tra il “non luogo” e il “luogo buono”. Dante, nella scelta tra le due, non avrebbe avuto dubbi.
Prof. Fjodor Montemurro
(Presidente Società Dante Alighieri, Matera)
Dante Alighieri, "Monarchia" edizione del 1758
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