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 "La poesia in quanto tale è elemento

costitutivo della natura umana"

 

InCanto Dantesco

Quale umanesimo per Dante?

  

Quando nell’Heautontimorumenos del commediografo latino Terenzio il vecchio Cremete esclama «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», vuole significare che ogni aspetto della vita e dell’essere umano non può lasciarci indifferenti: non siamo soli, viviamo inseriti in un contesto sociale, siamo fatti di carne ma anche di spirito, abbiamo dentro di noi un universo intero di sentimenti che solo al genere umano è dato provare.
Il verso, citatissimo e spesso abusato, divenne il manifesto della filantropia dell’Umanesimo, quel periodo che comincia dal 1380 e sconfina nel vero e proprio Rinascimento, caratterizzato da una rinnovata fiducia nelle potenzialità laiche dell’uomo, dalla riscoperta della cultura antica di derivazione latina e poi greca, da un nuovo amore per le virtù civili dell’uomo.
Che rapporto può esserci tra Dante e l’Umanesimo?
E soprattutto, questa domanda è corretta?
Innanzitutto, dobbiamo chiarirci cosa intendiamo per Umanesimo, se ci riferiamo cioè al periodo storico che prende avvio dalla morte di Petrarca e prosegue fino a metà Quattrocento, o piuttosto a un generico atteggiamento trasversale, un modus vivendi, un sentimento di chiunque, artista, intellettuale, politico, voglia porre alla base della sua vita la categorica asserzione del Cremete terenziano.
Partendo proprio da questa premessa, possiamo considerare il rapporto tra Dante e l’Umanesimo sotto due distinti punti di vista.
Cominciando dal primo punto, se vogliamo tratteggiare la relazione tra Dante e il fenomeno culturale dell’Umanesimo italiano, il problema si presenta complesso, al punto che non univoche sono state le risposte che i dantisti hanno fornito nel corso dei secoli. Dante, come è noto, nonostante sparuti entusiasmi di grido, non è stato un umanista né un pre-umanista, come invece Petrarca.
Basti a confermarlo solo il fatto che Dante era inserito saldamente nel contesto della cultura medievale, forte di una ben radicata formazione teologica che subordinava ogni aspetto della vita umana al volere divino: Dante non era in grado di cogliere lo schiacciamento temporale che il Medioevo operava tra il presente e il passato, e, in piena obbedienza alla visione figurale della storia, tendeva indebitamente a rileggere la storia antica con le categorie interpretative del suo tempo, a tal punto da fare di Stazio e Virgilio due poeti cristiani.
Tale atteggiamento cominciò a essere messo in crisi da Petrarca, il primo vero pre-umanista, dotato di una ben diversa sensibilità che non operava tali sovrapposizioni culturali.
Lo stesso atteggiamento retrogrado di Dante per i cambiamenti economici e sociali che agitavano la vita comunale del Trecento, come l’emergere della classe borghese e protocapitalistica o la diffusione in Europa dell’idea di nazione-Stato, già produttiva in Francia e Inghilterra a discapito dell’Impero, testimoniano come Dante fosse pienamente assertore di un mondo che invece era ormai al tramonto, e che non avesse quella capacità di leggere i mutamenti veloci che accompagnavano la sua esistenza, arrivando persino a rifiutarli e a bollarli come sacrileghi tentativi di sconquassare l’intoccabile sistema dualistico di Papato e Impero o come manifestazioni di peccaminose istanze materialistiche e mondane, lontane dalla spiritualità cristiana testimoniata nella Bibbia.
Insomma, Dante è pienamente un uomo del Medioevo, e non sembra aver abbracciato quella nuova mentalità laica e moderna che esplose nel Quattrocento.
Inoltre, diversamente da Petrarca, Dante non si distinse nell’arte della filologia, nella ricerca di testi fuori dal canone medievale o considerati perduti, talvolta si servì di lessici e repertori etimologici portatori di spiegazioni fantasiose, che piacevano all’uomo medievale e che disgustavano l’umanista. La Storia dell’uomo rimane ancora un percorso sub specie aeternitatis, e la teologia, nonostante la dignità del sapere pratico venga esaltata nel Convivio, rimane il punto unico cui deve tendere la scienza umana: la conoscenza stessa non è umanisticamente intesa come fine a se stessa, dotata da sola di un suo valore intrinseco, ma è funzionale, per gradus, alla progressiva perfezione morale e spirituale dell’uomo, il quale trova il suo massimo fine nella contemplazione teologica; se c’è qualcosa di filosofico e scientifico che l’uomo deve sapere,«hoc non est gratia speculativi negotii, sed gratia operis» (Lettera a Cangrande).

Tuttavia, anche se le basi per una Dante umanista ante-litteram paiono essere molto labili, non possiamo non segnalare come alcune delle sue acute analisi abbiano trovato terreno fertile nell’Umanesimo, soprattutto in quel settore culturale noto come Umanesimo cristiano, che altro non è se non un pensiero teologico sottoposto alla critica della ragione.
Un aspetto dell’Umanesimo cristiano era infatti la riproposizione di una religione che non fosse solamente punizione e ammonimento (si pensi ai teschi sulle tombe, tanto disprezzati dal Foscolo ne I Sepolcri), ma di una conciliazione tra i valori del mondo antico e gli insegnamenti del Vangelo, tra aristotelismo e spiritualità, come sussunse in maniera convincente Tommaso d’Aquino, spogliando la religione da superstizioni, paure e dogmi, o come si prodigò di fare Erasmo da Rotterdam.
Dante fu molto credente e ossequioso della religione, ma non disdegnò di cantare l’amore quale alta manifestazione della natura umana: allontanandosi dai toni tetri e masochistici del contemptus mundi, ma innalzando la donna, l’omaggio cortese, il saluto stilnovistico, ad amore di Dio, fu proprio Dante il primo a calare l’ itinerarium mentis in Deum dei mistici medievali all’interno di una semplice storia d’amore terreno, come ci testimonia l’opera giovanile Vita Nova.
Anche la critica al clero, altra componente dell’umanesimo cristiano, fu una costante moralistica che Dante sviluppò a gran voce e senza paura nella Divina Commedia, attaccando i Papi che sconfessavano l’etica del Vangelo e che facevano del potere temporale un mezzo di lotta contro l’Impero.

Nonostante questi aspetti, non pare che Dante possa essere accostato all’Umanesimo, né che ne abbia precorso i tempi. Eppure, la sua opera, hominem sapit, per dirla con Marziale. Se infatti per umanesimo intendiamo la capacità di esprimere tutta la pienezza dell’humanitas di cui si sostanzia la nostra esistenza, Dante è il poeta più grande, perché nessuno come lui ha saputo portare sulla scena poetica una tale varietà di personaggi, di sentimenti, di passioni: basti pensare a tutti i peccatori dell’Inferno, con le loro aberrazioni e le loro debolezze, a volte perverse ed esecrabili, altre volte così coinvolgenti da meritare la nostra pietà e la nostra comprensione, oppure alle anime penitenti del Purgatorio, con i loro “casi irrisolti”, i loro rimorsi, le loro attese nella fiducia di abbracciare l’Eterno, o ancora alle fiammelle del Paradiso, fisse nella loro santità e tanto più perfette quanto inarrivabili o difficilmente imitabili per l’uomo comune.
Se il genere umano perisse e ne restasse traccia solo nella Divina Commedia, l’umanità che ne trasuda basterebbe ad un novello Divino Artefice per ricreare il mondo così come lo conosciamo oggi.

 

 

Prof. Fjodor Montemurro

(Presidente Società Dante Alighieri, Matera)

 

 

Ritratto di giovane uomo con libro. A. Bronzino, 1540 circa ott

Dante. Besteghi Andrea, 1865.

 

 

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