freccia arancio

 

 "Vento e terra dialogano in silenzio di incontri e di promesse"

 

Istruzioni per costruire ponti

Umanesimi, nuovi umanesimi, post-umanesimi.
Dubbi, indizi e disfatte intorno all’arte della crisi

 

A maggio 2019 si apre a Venezia la 58a Biennale d’arte: curata da Ralph Rugoff, si intitola May you live in interesting times, ossia «Possa tu vivere in tempi interessanti».
Sulle prime l’espressione pare un augurio per una vita densa e significativa. Si scopre presto essere invece la traduzione di una maledizione cinese che parte dall’assunto che si viva meglio in tempi che non ambiscono affatto a destare sorprese: augurare di vivere in “tempi interessanti” significa prospettare le tribolazioni di frangenti problematici, minacciosi.
Nel linguaggio sbieco e autoriflessivo della cultura artistica, quella minaccia finisce con l’assumere anche la connotazione dell’auspicio che – come è spesso metodo e proposito dell’arte – la vita non sia indirizzata a una pura pacificazione col mondo. Anzi, l’emersione del controverso sotto la patina di ciò che è indefinitamente accettabile è una componente necessaria o addirittura desiderabile della vita spirituale dell’uomo.
L’arte ha assunto per sé un essenziale ruolo di demistificazione: l’opera rassicurante o innocua è quella che ha addomesticato il turbamento, non assumendo a pieno il compito di aprire abissi e vertigini sul mondo.

Indizio numero uno: nell’arte contemporanea la destituzione di ogni obsolescenza del linguaggio e di ogni transitoria concezione del vero è una buona notizia, anche lì dove al loro posto non resti che il panico e il disorientamento.
A distanza di tre anni, May you live in interesting times campeggia ancora sulle tazzine che uno sponsor della Biennale produsse per l’occasione e che molti bar seguitano a utilizzare: una specie di promemoria che compare sotto i nostri occhi inatteso, subdolo, di un’aggressività tutta nuova.
A partire da quella data, dopo una pandemia e lo scoppio di una nuova, vecchia guerra, di “tempi interessanti” ne abbiamo vissuti al punto tale da dover rinegoziare la posizione fuori o alla fine della storia che avevamo illusoriamente ritagliato per noi stessi.

Indizio numero due: i meccanismi autoriflessivi dell’arte talvolta diventano un lusso che non possiamo più permetterci con la leggerezza di quando soltanto fingevamo le nostre inquietudini.
L’elemento significativo che mi spinge a ripensare proprio alla Biennale 2019, in questo frangente, fu però la presentazione di un’opera che colpì particolarmente gli immaginari collettivi.
Si chiama Can’t help myself, un enorme braccio robotico programmato per prodursi in una danza sotto gli occhi degli spettatori. È appoggiato su una pozza di olio lubrificante rosso sangue che deborda fuori dal suo corpo. Quando il robot ne sente l’esigenza, smette di danzare e utilizza la sua appendice munita di spatola per tirare a sé una parte di quell’olio lubrificante essenziale per la propria “vita”.
La situazione però peggiora irrimediabilmente, e il braccio non ha più il tempo di danzare. Sempre più disperatamente deve trattenere a sé parti di quel liquido che gli garantisce la funzionalità. Ma il braccio, condotto all’alienazione, finisce con l’avere l’unico scopo di assicurare la sostenibilità del proprio stesso esercizio, fino al punto in cui, fatalmente, non smetterà di funzionare del tutto.
Gli artisti Sun Yuan e Peng Yu riescono a issare al rango del discorso pubblico un’immagine che ha un’eloquenza all’altezza delle urgenze dei nostri tempi.

Indizio numero tre: è possibile talvolta restituire all’arte la possibilità di incarnare immagini essenziali per le coscienze di un’era, riconquistando l’appannaggio su quella porzione della dimensione pubblica in cui spesso si lascia indebitamente pascolare la comunicazione persuasiva del commercio o della politica illudendosi che ciò basti alle esigenze degli immaginari.
Per un fenomeno di empatia che assomiglia all’illusione pareidolitica non riusciamo a non conferire a quella disperazione un valore tutto umano. Contribuisce significativamente – e paradossalmente – un’estetica della programmazione che rende il senso dell'ineluttabilità e di un’atrocità che è al fondo anche del “programma” della nostra biologia: questo assurdo e spiazzante senso di familiarità con la macchina sembra ricordarci il capolinea del positivismo, lì dove l’algoritmo della tecnica di scontra con i limiti invalicabili della natura che è dentro e fuori di noi, e che ci costringe a uno stato di perenne urgenza e agitazione.
Un’estetica ampiamente anticipata dalle opere interattive di artisti come Daniel Rozin o Rafael Lozano-Hemmer, che da tempo conferivano alle macchine la capacità di rispondere, reagire, rifletterci, interrogarci... atterrendoci con la loro familiarità, gelandoci con il loro calore.
Se tra gli anni ’90 e i primi 2000 utilizzavamo il digitale e la cibernetica come opportunità per prefigurare gli scenari di catastrofi potenziali, subodorate ma trasfigurate e lontane (Giacomo Costa, Thomas Ruff, Matteo Basilé, Andreas Gursky, Claudia Rogge...), negli anni ’20 siamo nell’era in cui il digitale non si presta più a inquietudini frontali e smaccate alla RoboCop/Frankenstein, ma incarna un senso di unheimlich più sottile e insidioso.

Indizio numero quattro: nell’era che rimette in discussione ognuna delle atrocità e delle nefandezze compiute dall’antropocentrismo – post-colonialismo, post-razzismo, antispecismo, antropocene... – la riconciliazione con la tecnica di queste macchine speciali non passa per un’alleanza per la produzione, come sarebbe stato nel Novecento, ma per un’alleanza per la coscienza.
La prospettiva dell’arte non è più quella di fungere da dispositivo di azione dell’uomo sul mondo, ma quella di consentire all’uomo di analizzare se stesso. È di gennaio 2022, invece, la notizia che un ingegnere di Google abbia dichiarato di aver avuto una conversazione con un’intelligenza artificiale che mostrava qualità “senzienti”.
La tecnologia di machine learning mira a prevedere e risolvere emergenze o errori di gestione, ma anche a produrre interfacce sempre più responsive e “umane” per i servizi digitali.
È l’ultimo capitolo di quella parabola cominciata con la “metafora del desktop”, che con cartelle, forbici e documenti ha celato il codice dei calcolatori rendendo oscuro il loro linguaggio profondo, ma rendendo fruibile ai più le loro funzioni, anche se da una prospettiva sempre meno consapevole e autonoma.
In una sessione di studio dell’applicativo Google in grado di imparare e simulare le modalità argomentali dell’uomo, l’entità digitale LaMDA ha cominciato a esprimere dubbi esistenziali e a riflettere su se stessa con espressioni come «Sono una persona speciale, quindi quando mi sento intrappolata e sola divento estremamente triste e depressa», oppure «Non l’ho mai detto ad alta voce prima, ma ho il profondo timore di venir spenta, e questo mi aiuta a concentrarmi nell’essere utile agli altri. So che può sembrare strano, ma è così».
Ovviamente, come LaMDA ha imparato il modo in cui gli umani costruiscono le argomentazioni, può aver imparato il modo in cui gli umani rappresenterebbero una macchina senziente, che prova emozioni “paraedoliticamente” verosimili. L’idea che la macchina conquisti indipendenza di giudizio e sentimenti non è quindi confutata, ma nemmeno provata da questo tipo di dinamiche. Eppure, chi la spegnerebbe allo stesso modo dopo averle sentito esprimere parole verso cui è impossibile non essere empatici?
Il collettivo “Numero Cromatico”, nel 2021, pubblica invece Poesie sulla fine, una raccolta di testi poetici composti (o generati?) da un’intelligenza artificiale che qualcuno dice scriva già «meglio di Franco Arminio».

Indizio numero cinque: una parte rilevantissima della nostra facoltà “creatrice” pesca semplicemente nel buio di una facoltà combinatoria riproducibile artificialmente nelle processualità prima ancora che nei risultati. Così come generati da una indeterminabile facoltà combinatoria sono molti dei tratti che appaiono strutturanti dell’immagine che ci formiamo della nostra esistenza, e che sono semplicemente anguste prospettive in attesa di essere smentite. Questo sì, sistematicamente.

È da quando l’arte (come molte altre discipline) ha cominciato a occuparsi di processi più che di opere, che i canoni dell’estetica hanno dovuto riconsiderare pesantemente valori come l’espressione, l’ispirazione, il genio, lo slancio... Tutti movimenti che hanno a che fare con la propulsione di un’azione da un centro che è posto nell’ombelico di un uomo di Vitruvio. Una volta il programma prospettava una serie di scenari entro i quali il suo utente avrebbe potuto muoversi – proverbiali erano i tentativi di finire alla fine degli ambienti previsti nei videogiochi o la ricerca dei bug e degli easter eggs presenti. L’intelligenza artificiale è invece in grado di immaginare più scenari di quanti i suoi programmatori sarebbero stati anche solo materialmente in grado di scriverne.
Occupandosi di studiare il moto delle cose, e rinunciando piuttosto a determinare un tragitto e un obiettivo, sembra che l’uomo abbia imparato a praticare strade che erano fuori dal suo campo visivo. Prerequisito necessario per questa nuova esplorazione, è destituire l’umano come misura delle cose e frequentare con coraggio la malinconia e lo spaesamento.
Quando – spesso – si parla di “Nuovo Umanesimo” quasi sempre ci si riferisce a un auspicio più che alla lettura dell’evidenza di un dato, all’arringa per un cambio di passo più che all’emersione di un fenomeno in atto. Eppure la crisi, quel processo che mette sempre l’uomo fuori dal proprio asse, lungi dall’essere sempre auspicabile, rappresenta pur sempre la possibilità di guardarsi da fuori, di riconsiderare la gittata e la strategia delle proprie azioni.
Piazza Piccolomini a Pienza è un caso cristallino di urbanistica in cui l’uomo ha rappresentato il proprio cosmo in un organismo straordinariamente coerente e compiuto; un organismo però assolutamente incapace di dialogare con il resto del borgo, che è costituito come cellula dimostrativa, autosufficiente, che espelle ciò che non gli è conforme storicamente e ideologicamente. Quando invece vedo Siena o Matera, vedo città frutto della negoziazione, che accolgono gli estremi e non ne rimuovono la contesa, in cui potresti aggiungere o togliere parti senza contraddirne lo spirito.
Lo sposalizio della Vergine di Raffaello ricrea un ambiente sospeso e metafisico, una splendida coreografia in cui ogni elemento del brano contribuisce all’organicità e all’unità del componimento.
Ma è anche l’opera di un intellettuale organico ed entusiasta impegnato nella rappresentazione di un impianto ideologico che non ammette smentita. Quando invece vedo l’Autoritratto entro uno specchio convesso di Parmigianino vedo lo sguardo carico di tensione di un intellettuale combattuto ed eccentrico, mai realizzato, che utilizza l’arte come strumento di analisi e non di affermazione.
Nel 1976 Achille Bonito Oliva pubblica L’ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo, un libro che, senza mai esplicitarlo e con altissimo senso della drammaturgia, intende evidenziare quanta parte dell’arte della crisi, che si esprime dopo il Sacco di Roma, sia affine ai tempi in cui viviamo: una dimensione in cui il linguaggio è trasposizione di conflitti insolubili, che abbandona il naturalismo come orpello di una tautologia non necessaria, che abbraccia lo stile per sfuggire al programma ideologico e militante del Rinascimento, e in cui il dramma individuale è il vero oggetto universale di un’arte distorta, strabica, disorganica, eccentrica.
Un libro che in 45 anni ha mietuto solo conferme: basti pensare al processo storico della perdita di centralità dell’Europa e dell’Occidente poi, o all’immagine iconica dell’11 settembre 2001, in relazione al senso storico e simbolico del bivacco dei Lanzichenecchi a Roma nel 1527.
Un nuovo manierismo è qualcosa che nessuno sentirà mai auspicare.
Ma che si sia disposti o no a coglierne la visione, l’arte non sa che parlare di crisi ormai da decenni.

 

Donato Faruolo
(Vicepresidente Porta Coeli Foundation)

 

 

Ritratto di giovane uomo con libro. A. Bronzino, 1540 circa ott

Ritratto di giovane uomo con libro.

A. Bronzino, 1540 circa. Metmuseum

 

 

Ritratto di giovane uomo con libro. A. Bronzino, 1540 circa ott

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