"Le cose più importanti nella vita delle persone sono i loro sogni e le loro speranze, ciò che hanno realizzato e pure quello che hanno perduto"
Memorie
Il racconto di una ostinata ricerca
La confidenza con il nostro territorio fu provocata da positive relazioni intessute nel corso degli ultimi anni ’50 con uomini della statura di Umberto Zanotti Bianco, Adriano Olivetti, Manlio Rossi Doria, Rocco Mazzarone, etc.
Portavamo il disagio di vivere in una città elevata a rango di capitale dei contadini meridionali, con tutta la povertà legata a tale investitura.
Eravamo i rappresentanti della miseria pezzente del Mezzogiorno d’Italia per essere Matera segnata dal marchio di infamia e di vergogna nazionale.
Noi vivevamo, però, tale condizione con slanci di ardimento, poiché i nostri autorevoli interlocutori ci segnalavano il vitalismo storico di Matera che non poteva essere sterilizzato dalle vicende drammatiche degli ultimi tempi.
Ci chiedemmo allora se fossimo figli della miseria o figli della storia, e per rispondere a tale quesito cominciammo a leggere le infinite pagine delle vicende millenarie della città, partendo da quando Matera era stata vinta dal mare e da quando, dopo la sua emersione, divenne un ambiente alveolare ricco di cavità e di caverne. Capimmo allora che Matera, quale geologia esistenziale sopra il tempo e contro il tempo, era divenuto naturale approdo di uomini e di donne primordiali alla ricerca di un riparo naturale in cui trovare protezione e rifugio.
Iniziammo a percorrere il territorio materano alla ricerca di testimonianze e di valori del passato, capaci di testimoniare la continuità nel tempo di una eroica e trepidante umanità.
Ripercorremmo le tappe preistoriche già esplorate da Domenico Ridola, documentando luoghi, villaggi e necropoli. Poi entrammo nel furore esplorativo dell’Alto Medio Evo, un mondo di insediamenti rupestri sconosciuto e inesplorato.
Ogni domenica si usciva a caccia di grotte, coniugando natura, cultura e avventura. Eravamo un gruppo, a regime, di circa 40 persone. Tutti volontari di un tempo libero divenuto tempo pieno di passione, di emozione, di studio.
Tra Sassi e Murgia rilevammo numerosi cenobi e numerosissime chiese rupestri, avendo il privilegio di individuare luoghi straordinari del tutto sconosciuti.
Tra queste scoperte va ricordata quella della Grotta dei Cento Santi, da noi ribattezzata Cripta del Peccato Originale, la scoperta non fu casuale ma il frutto di un lungo testardo inseguimento, scandagliando per mesi la Gravina di Picciano.
L’inizio di questa esplorazione risale a una lontanissima estate e si colora di un ricordo incancellabile.
Un pomeriggio canicolare del luglio 1962 ero diretto a Matera, provenendo da Potenza, dove avevo discusso un delicato processo penale. Era il periodo in cui con gli amici del “Circolo la Scaletta”, fondato nell'aprile 1959, lavoravamo alla ricognizione del patrimonio storico-artistico di Matera.
Da oltre due anni ci eravamo imbattuti nel fenomeno inesplorato della civiltà rupestre.
L'intento era quello di recuperare e di valorizzare, perciò, la nostra identità, violentata da un demagogico vuoto di memoria collettivo che aveva bollato Matera come la “città dei trogloditi”. L’alba di un nuovo umanesimo.
A dieci chilometri dall'abitato, nell'attraversamento del ponte sul fiume Bradano, fui colpito dalla presenza di un anziano contadino che a fatica procedeva a piedi, portando sulle spalle un radiatore. Bloccai l’auto deciso a offrire a quell’uomo un passaggio e ad alleviargli le fatiche, sistemando il suo fardello nel bagagliaio.
Mi disse di essere diretto in città per riparare il radiatore del trattore forato mentre attraversava un fosso di confine dei suoi terreni, siti nella vicina località di Santa Lucia. Mi ringraziò per l’inattesa ospitalità e ripartimmo.
A quel tempo non avevamo ancora localizzato la chiesa di Santa Lucia al Bradano che, per mezzo della descrizione del francese Charles Diehl, sapevamo essere illuminata dall'immagine imperiosa di un Cristo Pantocratore.
Chiesi quindi al rasserenato compagno di viaggio se avesse notizia di tale ipogeo e se per caso non avesse avuto modo di visitarlo;
mi rispose di no, precisando che, nonostante la propria azienda agricola ricadesse in località Santa Lucia, non aveva avuto occasione di ispezionare le tante grotte che si affacciavano lungo il costone roccioso del fiume.
Continuammo la marcia verso Matera nel silenzio torrido dell’ora, interrotto solo dal ritmato tramestio delle cicale. Poco prima dell’inizio della città, l’ospite ruppe improvvisamente silenzio e calura esclamando che quando aveva dieci anni e faceva il pastore riparava il gregge in un ovile ubicato in un’ampia grotta detta dei “cento santi”, posta sul margine della Gravina di Picciano. Incuriosito, chiesi la ragione di tale strano nome e l’interlocutore mi rispose solennemente che «la grotta si chiamava dei cento santi perché vi erano cento fotografie di santi».
Uno stridìo di freni segnò la mia indicibile sorpresa; con impazienza, domandai che cosa intendesse per fotografie di santi, ed egli rispose che «ci sono cento figure di santi sulle pareti!».
Spiegò, inoltre, che tale grotta affrescata si trovava in un vallone della gravina di Picciano, in località Don Antonio. Come sognando ad occhi aperti, mi raccontò che a volte aveva dormito su un giaciglio posto in una “grotticella”, protetto dagli occhi sgranati (shkacchete, in dialetto) degli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Ma da allora erano trascorsi più di quaranta anni e in tale lungo periodo egli non aveva mai avuto occasione di ritornarvi.
Nel frattempo eravamo giunti in città. Per mia somma sfortuna, l'officina del radiatorista Zinno era nei pressi di un semaforo, in via Lucana; il tempo di bloccare l'auto, aprire il cofano, estrarre il radiatore e ricevere un asciutto ‘grazie’, che il verde scattò assieme alle petulanze acustiche degli automobilisti bloccati dietro di noi. Ripartii in fretta, dimenticando di prendere le generalità e l'indirizzo del contadino, mai più rintracciato.
Mi rimasero il cruccio di tale disattenzione e il ricordo eccitante dello straordinario racconto di una grotta invasa da “cento fotografie di santi”.
Passata la calura estiva e i tempi morti del solleone, a settembre, con il gruppo de La Scaletta riprendemmo le uscite domenicali dedicate alla “caccia alle grotte”, localizzando di lì a poco il complesso rupestre di Santa Lucia al Bradano e quello di Santa Lucia alla Gravina.
Ogni giorno festivo si usciva in squadre, eppure della Grotta dei Cento Santi non si rinveniva traccia alcuna. Per me era diventata un’ossessione, rinvigorita dalla lettura di uno scritto dell’archeologo materano Domenico Ridola, il quale raccontava che «in altra grotta lontana, che viene chiamata dei Santi sono dipinti insieme S. Michele, S. Gabriele e S. Raffaele».
Nel pomeriggio del 1° maggio 1963 partimmo in esplorazione in pochi, perché gli altri erano ormai rassegnati e sfiduciati. Nella storica Fiat 1500 color blu-pavone eravamo in quattro: oltre a chi scrive, c'erano mia sorella Teresa, Maria, poi divenuta mia moglie, e infine Carlo, uno dei geometri del gruppo, poi affermato architetto in Torino, prematuramente scomparso qualche anno fa nel suo “esilio piemontese”, come era solito ripetere. Parcheggiammo l’auto ai margini di un folto uliveto, che attraversammo per oltre un chilometro, sino al ciglio del torrente Gravina, proseguendo la marcia per altri seicento metri. All’improvviso la gola del torrente si aprì in una sinuosa ansa dagli spalti rocciosi punteggiati di cavità e segnati da collegamenti verticali (i gradini scalpellati nella roccia) e da servizi (depositi, pozzi, canali di raccolta delle acque). Il tutto in un dolce declivio esposto in pieno mezzogiorno e con alcune grotte dagli accessi più ampi poste sul versante opposto.
Per i nostri occhi, ormai esperti, era la certezza di un insediamento rupestre.
Di corsa percorremmo gli oltre 100 metri che ci separavano dalle grotte collegate da scale e scalette a strapiombo scolpite nella roccia, tra rovi, cespugli e arbusti.
Entrati nella prima grotta la trovammo vuota; la seconda, enorme, era un deposito di attrezzi agricoli; la terza, protetta da una barriera di frasche alte 1,70 metri e con al centro una piccola porticina in legno, era l’ovile.
Entrammo nella cavità come ciechi perché il sole “ferocemente antico” della murgia materana ci aveva “accecati”. Fermi al centro della caverna avvertimmo sulla nuda roccia una presenza impalpabile di sagome; appena gli occhi si abituarono all’oscurità dell’antro dalle pareti uscirono “i cento Santi”.
Quando le ragazze ci raggiunsero, trafelate e ansiose, ci trovarono, emozionati, abbracciati per terra nella grotta dalle “cento fotografie di Santi”.
Ribattezzai immediatamente quella grotta meravigliosa con il nome di Cripta del peccato originale, a causa del suo straordinario ciclo pittorico della Bibbia figurata, con le scene della creazione dei Progenitori, del Peccato originale e della creazione della Luce e delle Tenebre.
Per tale scoperta al Circolo La Scaletta fu conferita dal Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Belle Arti, la medaglia d’oro di benemerito della Cultura.
Ma tali riconoscimenti non potevano rimanere solo formali.
Occorreva salvare questa caverna straordinaria e i suoi quarantuno metri quadrati di affreschi longobardi beneventani stesi 500 anni prima di Giotto.
Questa continuità di impegno è stata premiata attraverso un’altra iniziativa patrocinata dalla mia Fondazione Zetema, che, dopo l’acquisizione della chiesa rupestre, ha operato un restauro esemplare della stessa, attraverso un intervento divenuto modello di riferimento per la conservazione, la valorizzazione e la gestione del patrimonio rupestre meridionale.
La chiesa restaurata fu aperta al pubblico il 23 settembre 2005 e oggi rappresenta una tappa obbligata per i visitatori che raggiungono Matera per scelta e non per pruriginosa curiosità.
Raffaello De Ruggieri
(Presidente Fondazione Zetema, Matera)
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