"Ancora sui rami del futuro, la speranza crede al fiore che avvampa"
Le navi del sogno
Il contributo dell’Umanesimo italiano al “miracolo europeo”
(prima parte)
«Where absolute power is,
there is no publick».
(Lord Shaftesbury)
Sono stati soprattutto gli storici dell’economia a interrogarsi sul “miracolo europeo”. Quale miracolo? Apparentemente di una cosa semplice quanto stupefacente: i grafici secolari (per esempio in Piketty, Il capitale del XXI secolo, Bompiani, 2014, p. 160 e R. Baldwin, La grande convergenza. Tecnologia informatica, web e nuova globalizzazione, Il Mulino, 2018, p. 64) mostrano una crescita dell’economia mondiale (dall’anno zero) pressoché quasi nulla, quando improvvisamente dalla fine del Seicento si ha una impennata che, con brevi e piccole interruzioni, prosegue sino al secolo XXI.
Sappiamo inoltre che tutta questa crescita è dovuta esclusivamente all’Inghilterra della “rivoluzione industriale” (esplosa intorno alla metà del Settecento) e poi anche all’Europa occidentale, ma soltanto intorno alla metà dell’Ottocento (soprattutto a quella del centro-nord:Olanda, Francia e Germania).
Qualche dato sull’andamento del PIL lo renderà evidente (vedi grafici): fatto 100 il Regno Unito del 1900, abbiamo i seguenti indici nel 1830 e nel 1915: Regno Unito, rispettivamente poco meno di 50 e 115; Italia: 5 e 25; Canada: 4 e quasi 50; Francia: 6 e 51; Germania: 6 e 80; Stati Uniti: 6 e 125.
Ora li si confronti con i principali paesi dell’Oriente (inutile parlare di Africa e Sud America): India (con il Pakistan) 7 e 2; Cina: 8 e poco più di 3; Giappone 7 e 21.
Ecco la “grande divergenza”: partendo dall’Inghilterra, l’Occidente ha una gigantesca crescita economica (per cui si è parlato di take-off o “decollo”) dai primi del Settecento che, seppur rallentando, continua sino ad oggi, mentre l’Oriente ha una stagnazione secolare e persino una regressione sino ai primi del Novecento.
La parziale eccezione è quella del Giappone, quando verso la metà dell’Ottocento, sotto la forte pressione delle potenze occidentali, fu indotto a imitare l’industrializzazione occidentale (è la rivoluzione Meiji). Esso mantenne però un sistema imperiale fortemente autoritario (R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Laterza, 2017.), mentre la Cina fu costretta a soccombere. Con due guerre lampo l’Inghilterra ne fece il maggiore importatore di oppio al mondo, che, vietato in patria, era coltivato in India. Molti Paesi occidentali fecero di alcuni territori sulle coste orientali cinesi le loro colonie.
Alcuni anni fa gli storici si sono giustamente chiesti cosa avesse causato questa “grande divergenza” tra le più antiche e grandi civiltà del mondo, reso ancora più evidente dal collasso della società sovietica e dalla permanenza del sottosviluppo in gran parte del resto del mondo.
Anche la Cina ha iniziato un forte sviluppo solo con le riforme economiche del dopo Mao e l’abbandono del collettivismo forzato.
Si deve tener conto che nel Seicento l’Oriente aveva conoscenze e tecnologie comparabili con quelle occidentali, in alcuni settori persino superiori (D. Landes, Why Europe and the West? Why not China?, in “Journal of Economics Perspectives”, XX, 2006, pp 3-22). In generale questo vale anche per l’impero Turco. Peraltro, e questo va sottolineato con forza, in contemporanea con il boom economico si ha l’inizio dell’affermazione del sistema politico democratico: costituzione garantista, separazione dei poteri, pluralismo politico.
La ragione di questo legame stretto tra sviluppo e democrazia sta nel fatto che soltanto un potere democratico può garantire
sia i capitali che il rispetto dei contratti tra privati e quindi le libertà: “la libertà di” deve essere accompagnata dalla “libertà da” soprusi.
Il capitalismo inteso come commerci anche a grande distanza esisteva da secoli sia in Occidente che in Oriente.
Si trattava però di una capitalismo che o era protetto da re e principi oppure era fortemente limitato dalle corporazioni.
Dipendeva troppo dalla volubile benevolenza della nobiltà, che era estranea all’idea di imprenditorialità e di diritti universali (con una parziale eccezione che riguarda il Rinascimento).
Se la ratio che lega sviluppo capitalistico e democrazia è logicamente chiara, non così lo è sul piano storico.
Quali processi hanno concretamente portato a questo “miracolo europeo”?
Una cosa va subito chiarita: la storia è sovente il prodotto di fatti contingenti che si legano tra loro dando poi vita a forme strutturali che si mantengono (pur con alcuni cambiamenti) per secoli. Si pensi a quando nel basso Medioevo ciò che restava dell’impero romano sotto l’influenza dei “barbari”si trasformò nella società feudale, durata, pur nella forma di ancien régime, sino ai primi dell’Ottocento circa.
Qualcosa del genere è avvenuta anche nel caso dell’affermazione del legame tra sviluppo e democrazia.
Il Paese dove questo ha inizio è l’Inghilterra, che non per caso ha la “rivoluzione industriale” già intorno alla metà del Settecento, mentre il primo parlamento elettivo come parte dello Stato lo ebbe già nel 1689, con il Bill of rights.
Gli stessi protagonisti del tempo ne hanno parlato come della Glorious Revolution, giustamente considerata come uno “spartiacque” per l’affermazione endogena di un contesto sociale fondato su istituzioni “inclusive”, ossia garantite da una legge di diritto superiore che può essere modificata soltanto con il consenso anche delle minoranze in un parlamento eletto periodicamente (D.C. North, B.R. Weingast, Constitutions and commitment. Evolution of institutions governing public choice in 17th.Century England, “Journal of Economic History”, XLIX, 1989, pp. 803-32)[1]. Da dove nasce questa eccezionalità dell’Inghilterra del Seicento? E che legame ha con il Rinascimento italiano?
La vera domanda, dunque, che pone il problema della “grande divergenza” è come si sia potuto instaurare questo legame stabile tra vertiginosa crescita economica e democrazia. E perché proprio in Europa occidentale, mentre l’Eurasia ha seguito un tradizionale percorso imperiale, prima con lo zarismo, poi con il comunismo totalitario? (vedi E. J. Jones, Il miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, Il Mulino, 2005; K. Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino, 2004).
Nel provare a dare una risposta a queste domande dobbiamo rivolgerci alla fonte principale di tutti i cambiamenti radicali che colpirono l’Europa occidentale nel Cinquecento, lasciando un’eredità di straordinario impatto, ossia la Riforma protestante e le conseguenti guerre di religione (M. Greengrass, La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648, Laterza, 2017).
Il successo della stessa Glorious Revolution, e prima ancora della rivoluzione di Cromwell e della Repubblica (1642-1659), si spiegano in gran parte su basi religiose. Morto Cromwell, il figlio fu giudicato non adatto al comando e il Parlamento richiamò Carlo II Stuart. Ma quando Giacomo II (fratello di Carlo) ereditò il trono nel 1688, il fattore che mise d’accordo le diverse fazioni (dentro e fuori il Parlamento) contro lo Stuart fu il fatto che era esplicitamente cattolico. Giacomo II fu costretto da una sollevazione popolare a fuggire.
Il Parlamento fece allora appello a Maria Stuart (figlia di Carlo II) che aveva nel frattempo sposato il protestante Guglielmo d’Orange III.
Con il giuramento di Guglielmo il Bill of rights sanzionò l’istituzionalizzazione del Parlamento come parte integrale della monarchia, dando così vita al primo sistema di potere parlamentare, anche se fino alla riforma del 1832, il voto era ancora a suffragio ristretto. Il suffragio universale fu infatti introdotto nel 1918 (le donne solo se avevano compiuto 30 anni); quello integralmente universale nel 1928. Il sistema (detto “modello Westminster) è stato adottato anche da molti Paesi appartenuti all’impero britannico, una volta ottenuta l’indipendenza (dall’India al Canda, dall’Australia alla Nuova Zelanda, nonché alcuni Paesi africani e delle Antille britanniche), ed è attualmente in vigore.
La centralità del Parlamento (in particolare della Camera dei Comuni) era dovuta a un fattore esclusivamente inglese. Probabilmente a causa del ritardo con cui fu introdotto il feudalesimo (lo portarono i Normanni nel 1066), e diversamente da quanto accadeva sul continente dove i parlamenti erano diversi e solo consultivi, in Inghilterra (e Galles) fu istituito un solo Parlamento (la camera dei Lord e quella dei Comuni). Su questa base la rivoluzione di Cromwell degli anni quaranta istituì la Repubblica, dandole una solida base sociale. Va ricordato che i veri nobili erano pochi, anche in proporzione alla popolazione e molti erano tali perché nominati dagli Stuart (Giacomo I e Carlo I, che fu processato e impiccato nel 1649).
Anche per questa poco numerosità della nobiltà, molto importante era la gentry, che aveva avuto un ruolo decisivo nell’appoggiare Enrico VIII contro i grandi baroni, che si opponevano all’istituzione di una vera monarchia. La gentry era una ceto molto particolare, una sorta di “popolo grasso” (come venivano chiamati i benestanti non titolati nell’Italia dei Comuni) che concretamente gestiva il potere a livello di Contea e di parrocchia dove controllava anche la milizia territoriale.
Da quando l’Inghilterra si era ritirata dai conflitti internazionali (Enrico VIII Tudor) non esisteva più un esercito professionale centralizzato (salvo la Marina). Come ha sostenuto Christopher Hill, «la distruzione della “libertà”… è il grande servizio che i Tudor hanno reso alla libertà», perché depotenziarono molto la nobiltà o la resero dipendente dalla Corte. Molti castelli e fortificazioni furono distrutti (La formazione della potenza inglese 1530-1780, Einaudi, 1977).
Inoltre contribuirono molto alla diffusione del protestantesimo creando la Chiesa Anglicana e accettando il pluralismo religioso ad eccezione del cattolicesimo. Gli Stuart (che erano succeduti a Elisabetta I, che non aveva eredi) cercarono invece di restaurare il potere nobiliare, ma a scapito della gentry che fu il perno sociale e militare della rivoluzione di Cromwell, il cui centro “politico” fu la Camera dei Comuni. Gran parte della gentry, molti contadini e artigiani benestanti si erano convertiti o simpatizzavano per qualche setta protestante (sovente di derivazione calvinista).
Una sorta di nazionalismo religioso – gli inglesi si autodefinirono “il popolo di dio” – servì al Parlamento per dare unità al Paese, nonostante un’iniziale ma blanda resistenza dei Tories. La sollevazione popolare contro Giacomo II fu anche una reazione alla credenza di congiure papiste per restaurare una monarchia cattolica. Anche per questo la stessa Chiesa Anglicana aveva preso le distanze da Giacomo II, dando un contributo decisivo al suo rovesciamento.
Qui ci siamo concentrati sulla dimensione religiosa, trascurando altri aspetti. L’importanza particolare della religione sta nel fatto che essa dava una “spiegazione” a qualsiasi evento che non fosse spiegabile altrimenti, per il semplice motivo che le conoscenze razionali del tempo erano molto limitate e comunque ristrette a pochissimi individui (J. Bossy, L’Occidente cristiano 1400-1700, Einaudi, 1990). La stessa “filosofia naturale” rinascimentale italiana era stata molto interessata all’astrologia.
In breve, il rimando a dio, a qualche santo o al demonio poteva “spiegare” tutto. La magia era diffusissima (K. Thomas, La religione e il declino della magia. Le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, Mondadori, 1985).
Per la stragrande maggioranza delle persone non v’era differenza tra preghiera come supplica a dio e incantesimo. I riti e le pratiche religiose erano come un «canale di comunicazione attraverso il quale il potere degli dei può essere reso disponibile ai diversi uomini impotenti».
Non si tratta, dunque, di un potere di intercessione, ma di un potere di “evocare” l’intervento delle divinità. In questo senso il cristianesimo popolare non era differente dalle religioni dei “primitivi” o dei “pagani”.
Si pensi alla comunione come transustanziazione in cui il pane e il vino si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo, rimanendo immutate le sembianze esterne. Questa dottrina teologica dell’eucarestia ebbe una prima formulazione nel IX secolo (poi ufficializzata nel concilio di Trento e ribadita da alcune encicliche; da ultimo la Mysterium fidei di Paolo VI).
In questo, il cristianesimo tardo medievale, non era molto diverso dal pensiero selvaggio: la stessa teologia era intrisa di magia e credenze “pagane” filtrate dalla filosofia. La fede, «né li nega, né li espelle, ma li sottomette alla potenza divina» (E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, 1935, pp. 159 e ss.).
Non c’è poi grande differenza dalla credenza negli oracoli degli antichi Greci. Per esempio, Apollo Pizio, il dio che per bocca degli oracoli mostrava, a Delfi, le vie del mare, tracciava le strade per terre sconosciute e misteriose, il dio folle, dissodatore e fondatore delle colonie greche (le polis del VIII e VII secolo) è l’Archegeta e l'Hégemṓn, la “parola” che guida e “che fonda in maniera creatrice”, ma non dal nulla, perché nell’antica Grecia non c’è creazione ex nihilo, come invece si credeva nel Medioriente.
Il dio archegeta non è un dio creatore, è solo un dio fondatore, ma è pur sempre un dio che opera in modo misterioso (M. Detienne, Apollon le couteau à la main. Une approche expérimentale du polythéisme grec, Gallimard, 1998, cap. 4).
In sintesi, il sacro, comunque concepito, forniva una lente culturale con cui interpretare il mondo profano ma altrimenti incomprensibile, «svolgeva una funzione ad un tempo cognitiva e di attribuzione di senso permettendo così di praticarlo in modo linguisticamente accessibile alla specie umana a seconda delle sue credenze» (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, 1976).
In questo senso, poiché gli Inglesi si credevano il “popolo di dio” chiamato a raccolta contro l’Anticristo, ossia il Papa di Roma, la sua sollevazione contro la “congiura papista” e demoniaca fu un fatto spontaneo, che venne appoggiato anche dalla Chiesa Anglicana. Dopo brevi scaramucce, Giacomo fu costretto a fuggire in Irlanda e poi in Spagna.
Proprio in Inghilterra, tra il 1688 e il 1689, avvenne un’altra rivoluzione, questa volta scientifica. Per ragioni teologiche e in opposizione al cattolicesimo che imponeva il terra-centrismo, i protestanti appoggiavano la scienza. Nel 1687 erano stati pubblicati i Philosophiae naturalis principia mathematica di Newton che colpirono molto alcuni ecclesiastici (soprattutto della Chiesa Anglicana), nonostante fosse noto che l’autore fosse interessato all’alchimia e all’astrologia. Tuttavia, la “filosofia della natura” newtoniana spiegava matematicamente le leggi del moto “conservando” dio (peraltro non diversamente da Galileo).
In questo modo le «forze spirituali potevano operare nell’universo; la materia poteva essere controllata e dominata da Dio e dagli uomini. La stabilità era possibile anche senza un costante intervento divino … la Chiesa era necessaria ed essenziale; eppure, nello stesso tempo, gli uomini potevano perseguire i loro interessi mondani. Questo, in breve, era ciò che il mondo naturale, spiegato nei Principia, significava per gli ecclesiastici che erano interessati primariamente a promuovere la loro visione del “mondo politico”» (M.C. Jacob, I newtoniani e la rivoluzione inglese 1689-1720, Feltrinelli, 1980, p. 21). Questi ecclesiastici episcopali o anglicani pensavano infatti di poter utilizzare i Principia per potersi opporre sia ai seguaci di Hobbes che ai riformatori radicali che erano sorti numerosi nel corso della rivoluzione di Cromwell (per esempio i Livellatori, i Diggers, i Veri Livellatori e altre sette) e avevano convinto gli Inglesi che presto sarebbe avvenuto «un paradiso millenaristico» (ivi). Con il ritorno degli Stuart, molte di queste sette emigreranno in America dandole un’impronta puritana.
Esse lasciarono così campo libero alla chiesa Anglicana che, pur avendo una teologia di impronta calvinista, aveva conservato un rituale in gran parte ancora cattolico.
Nicolò Addario
(Prof.re ordinario di Sociologia generale,
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)
NOTA PER IL LETTORE: la seconda parte del testo sarà pubblicata nel prossimo numero dei Quaderni.
[1] Qui è necessario fare una precisazione. La prospettiva di North si riferisce alla Teoria dei costi di transazione, ossia a tutti quei possibili costi per contratti che, non essendo a esecuzione immediata, verranno portati a termine in futuro e sono quindi incerti per definizione (per fallimento del contraente, per inadempienze e relativi costi per cause o anche per semplici errori e incidenti). La teoria prevede che, data questa incertezza, le parti in gioco sono stabilmente disposte a realizzare transazioni solo e soltanto se dispongono di un contesto istituzionale che li vincoli reciprocamente a credible commitments. Un problema analogo è stato segnalato a proposito dei traffici mercantili nell’Oceano indiano da K. M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia dal Cinquecento a nostri giorni, Einaudi, 1958. Solo lo stato costituzionale democratico offre un tale contesto e quindi le precondizioni per lo sviluppo continuo di attività commerciali, superando così i limiti del commercio premoderno (per esempio quello studiato da F. Braudel, I giochi dello scambio, vol. II, in Id., Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Einaudi, 1981). Sulla teoria dei costi di transazione si veda O. Williamson, The economic institutions of capitalism, Free Press, 1986; D. C. North, Institutions, “Journal of Economic Perspectives”, V, 1991, pp. 97-112.
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