"I nostri sguardi, le nostre parole, restano il confine che di continuo

cambia tra le cose andate e quelle che vengono"

 

Lo sguardo degli altri

  

Erano i primi dell’ottobre 2005.
Il Ministero mi aveva invitato a prendere parte ad un seminario residenziale presso il Liceo Cagnazzi di Altamura, sui temi della comunicazione didattica, nella mia veste di coordinatore nazionale del progetto “Logos-Didattica della comunicazione didattica” (che un anno dopo sarebbe divenuto Piano Ministeriale).
Erano giornate dense, di confronti, incontri, relazioni. Duravano dal mattino al tardo pomeriggio.
A metà seminario, gli amici di Altamura mi chiesero se fossi mai stato a Matera.
Non c’ero mai stato; dissi loro che un motivo per cui avevo accettato l’invito del Ministero era perché speravo di poterla visitare.
Così, nel giorno di pausa del seminario residenziale, andammo a Matera.
In automobile: ci fermiamo in un grande parcheggio davanti a orribili palazzoni come sono orribili tutti i palazzoni delle periferie di tutte le città d’Italia e d’Europa.
Chiesi: «amici, è questa Matera?». Risero: «porta pazienza un minuto e vedrai!».

Iniziammo con la visita al Museo nazionale: nelle ampie e luminose sale del seicentesco  Palazzo Lanfranchi, ho ammirato i reperti archeologici, i grandi vasi greci, il collezionismo ottocentesco; però l’opera che mi rimane ancora nella mente è il grande telero di Carlo Levi “Lucania 61”, perché il pittore, a mio avviso, supera Guttuso della “Vucciria”, non tanto per l’ampiezza del telero, quanto per l’emozione che respiri in quelle figure di uomini, donne, ragazzi, incastonati nel rude paesaggio materano.
Quindi, finalmente, ecco la grande conchiglia color tornalina della conca materana. Quell’incrociarsi, sovrapporsi, adagiarsi, alzarsi, abbassarsi degli edifici, piccoli, piccolissimi, alti, aggrappati al Sasso Barisano.
Un puzzle ideato dal mistero delle più antiche e remote storie?
Un costante arrocco di case che sembrano  spostarsi per lasciar posto ad una più alta, quasi una torre, non grande e poi il sali e scendi delle scale, delle scalette, degli scaloni, delle piccole piazze e delle salite, a volte quasi piatte sul fondo, a volte si inerpicano e senti il soffio del vento.
Forse un Grecale, un vento fresco da levante, che fa suonare le volte, i vicoli, gli anfratti, le curve improvvise fra le case  di questo sogno di pietra. Gli amici mi indicavano nomi e nomi che, ahimè, ho dimenticato, forse perché ero preso da quel gioco senza sosta di piani e contro-piani, di sezioni e contro-sezioni: uno spartito che le nuvole bianche del cielo coronavano in quella giornata – era primo pomeriggio – che avrei voluto fosse senza fine, perché  credevo di conoscere abbastanza la nostra bella Italia, avendo diretto trenta seminari in tutte le nostre regioni, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta e sono stato per tre Maturità nei luoghi del Salento: Ostuni, Soleto, Calimera e Gallipoli.
Ecco, forse Gallipoli qualcosa mi ricordava di questa conchiglia ventosa, senza mai stancarmi di scrutare quegli scuri  e quelle lisce di chiaro rosato – si appressava il primo crepuscolo e si accendevano le prime luci; adesso il colore di questa preziosa conchiglia era come quello del Granato Rodolite che passa da rosa al violaceo.

Ecco, sì: era una festa di colori. Non sontuosa. Raccolta nel silenzio supremo che regnava intorno a noi.
Gli amici avevano smesso di darmi quelle spiegazioni di cui, certo avrei avuto bisogno, ma l’emozione superava il desiderio del sapere topografico o viario. Volevo solo lasciarmi prendere da questa grande conchiglia che sembra salita dal mare, o forse, meglio, discesa da quelle nuvole che adesso arrossavano la volta del cielo.
Le prime luci accese nelle case occhieggiavano.
No, forse sorridevano. Forse mi dicevano: ehi! Tu che non sei di qui, benvenuto,  anche se ora te ne dovrai andare perché presto la notte ti farà scappare.
Insieme con gli amici, prima che fosse buio, ci fermammo su una terrazza per una foto d’addio, e chiesi  loro: «Quanti anni sono passati da “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini? Se non sbaglio è del 1964».
Lo chiedevo perché quella profonda religiosità laica che anima il capolavoro di Pasolini, anche oggi la respiri in questa conchiglia che non nasconde la sua preziosa  perla: respira i tempi antichi, si proietta nell’infinito del futuro, senza paure, ricco di speranze, di attese, di sogni.
Perché a Matera, davanti a questa grande conchiglia che svela la sua perla si può, si deve sognare. 

 

Prof. Francesco Butturini

(Medievalista)

 

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