"Ogni forma di cultura viene arricchita dalle differenze attraverso il tempo,
attraverso la storia che si racconta
"

 

Gli Stati generali

Le Regioni tra utopia e realtà

  

Il Cavour, alla vigilia dell’Unità, aveva affermato che non si potevano sottoporre alle stesse norme amministrative Regioni che per tanti secoli erano state divise e sotto governi diversi, con strutture geografiche e possibilità economiche e sociali diseguali.
Lo statista incaricò pertanto Carlo Farini di preparare un disegno di legge che desse spazio alle istanze autonomistiche, senza pregiudicare l’unità e l’autorità dello Stato.
Il Farini, titolare dell’Interno, nel 1860 nominò una Commissione speciale presso il Consiglio di Stato  al fine anzidetto, per porre alla base delle circoscrizioni amministrative statali le Regioni, considerate dal Ministro “suddivisioni effettive, che esistono nelle condizioni naturali e storiche; i centri delle forze morali che, se ne fossero oppresse per pedanteria di sistema, potrebbero riscuotersi e risollevarsi in modo pericoloso, ma che, illegittimamente soddisfatte possono mirabilmente concorrere alla forza ed allo splendere della Nazione”.
L’aspirazione federalista che aveva avuto altri illustri sostenitori quali solo per citarne alcuni - Ferrari, Rosmini, Gioberti, Salvemini, Jacini, Ponza di San Martino, Minghetti -  non ebbe successo.
L’aver scartato l’ipotesi regionalistica fu in seguito criticato da V. E. Orlando - fondatore della Scuola del diritto pubblico - il quale agli albori del nuovo secolo avrebbe sostenuto che la divisione in Regioni sarebbe stata la più aderente ai precedenti storici dell’Italia, fin dai tempi più remoti, e che avrebbe meglio risposto alla situazione politica preunitaria, come ben poteva evincersi dalla plurisecolare autonomia della Sicilia, già rispettata anche dal cessato Regno borbonico.

Dopo le tensioni economico-sociali ed i rivolgimenti che a livello internazionale caratterizzarono il primo conflitto mondiale, in Italia tornò a parlarsi di regionalismo, non più solo come problema che riguardava un’eventuale nuova forma di Stato, bensì come questione concernente gli equilibri sociali di un Paese in cui, dopo mezzo secolo dall’unificazione, risultavano ancora troppo forti i divari tra Nord e Sud: il decentramento, con la valorizzazione delle autonomie locali, avrebbe potuto risolvere il problema, secondo i suoi sostenitori, ma la riforma Acerbo del 1923, pose fine ad ogni anelito regionalistico.

Dopo la caduta del Fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, la riorganizzazione dello Stato italiano fu un’opera immane, la cui portata fu ben evidenziata da V. E. Orlando in un memorabile intervento svolto alla Consulta il 9 marzo 1946, in occasione del quale pronunziò queste parole: «La rivoluzione del 1789 era uno scherzo al confronto: qui è una svolta di epoche storiche, qui non si passa da una forma di governo ad un’altra, ma da un’epoca ad un’altra. Il paragone non si deve fare con le varie successioni di governo, ma con eventi che si verificano ogni cinque o sei secoli … Ebbene, in questo tremendo avvenimento, il nostro Paese si avanza sprovvisto di tutto, nella più grande miseria, tra i più grandi dolori, tra le più formidabili minacce … E qui sta la sua forza».

Il democratico cristiano C. Mortati nella seduta del 18 settembre 1947, all’Assemblea Costituente, riprese alcuni temi che aveva già sviluppato come correlatore della Commissione dei 75.

Entrando nel merito specifico delle Regioni, disse che con la loro creazione non si erano voluti tanto risolvere dei problemi generici di educazione politica o di garanzia delle libertà, bensì, osservò:«si è invece soprattutto inteso di promuovere e sollecitare l’organizzazione dei grandi gruppi di interessi, omogenei nel loro interno dal punto di vista territoriale e sociale, e differenziati dagli altri per le diverse condizioni storiche, geografiche, economiche, allo scopo di far pervenire le voci più chiare e genuine di questi interessi all’atto delle deliberazioni di politica generale, sicché tali deliberazioni risultassero il più possibile aderenti alla varietà dei bisogni reali della società».

«E nel promuovere l’attuazione di tale intento» – soggiunse – «si è voluto tenere presente soprattutto il Mezzogiorno, parte d’Italia cioè meno progredita rispetto alle altre, onde sollecitare in essa una più efficiente coscienza politica, ed in tal modo dare ad essa maggior peso nell’attività statale».

Le Regioni, per il Mortati, non dovevano essere delle pure e semplici circoscrizioni elettorali, ma costituire un centro unitario di interessi organizzati da far valere unitariamente ed in modo istituzionale.

Dopo tanti dibattiti era prevalsa la tesi di uno Stato fondato sulle autonomie, in contrapposizione al modello accentratore delineato nello Statuto Albertino.

I timori anti-regionalisti sembrarono infondati a 10 anni dell’avvento della Repubblica, poiché nel 1956 la giurisprudenza della Corte costituzionale aveva rilevato che l’introduzione dell’autonomia regionale nel nostro ordinamento, non ne aveva alterato la fondamentale unitarietà, che ne restava pertanto un connotato essenziale in armonia con l’art. 5 Cost., pur dandosi luogo ad un decentramento istituzionale della funzione legislativa, caratterizzata da una pluralità di fonti, facenti capo ad enti diversi dello Stato, e dotate di competenze tassativamente determinate e variamente delimitate.

Nella nostra Costituzione il decentramento (art. 5) è uno dei principi fondamentali, che ha avuto peraltro un’attuazione molto meditata, progressiva e diluita nel tempo, a partire dal 1970 per arrivare ai giorni nostri.

L’ultima riforma in ordine di tempo fu quella apportata nel 2001 al titolo V della Costituzione, che il Guarino non a caso volle definire la più vasta ed incisiva che fosse mai stata realizzata nel nostro Paese , in merito alla redistribuzione dei poteri legislativi ed amministrativi.

Detta riforma fu considerata una svolta epocale, con uno Stato che affiancò a sé le Regioni quali co-protagoniste della funzione legislativa, e con gli altri enti territoriali che divennero primi attori della funzione amministrativa.

Ciò venne ben rappresentato dalla formulazione dell’art. 114 Cost., che così recita: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dello Stato”. È di tutta evidenza che gli enti territoriali non sono più mere articolazioni dello Stato, bensì elementi strutturali nei quali, alla pari dello Stato, si sostanzia la Repubblica.

Entrando nel dettaglio del potere normativo degli Enti territoriali, rileviamo che le “Regioni” sono quelli dotati della più ampia autonomia, che si concretizza innanzi tutto nello Statuto, il quale in armonia con la Costituzione determina per ciascuna di esse la relativa forma di governo, i principi di organizzazione e di funzionamento, il diritto di iniziativa e di referendum sulle proprie leggi e provvedimenti amministrativi, e la pubblicazione delle leggi e regolamenti regionali. Gli Statuti regionali devono poi prevedere forme di collegamento fra Regioni ed Enti locali, attraverso il Consiglio delle Autonomie locali.

Un discorso a parte merita la potestà legislativa, che il testo dell’art. 117 della Costituzione riformato nel 2001 “rivoluzionò”, nella ripartizione delle proporzioni della relativa titolarità: da allora compete infatti alle Regioni per ogni materia che non sia espressamente riservata allo Stato.

Quest’ultimo opera in via esclusiva in tema di rapporti internazionali o di funzioni necessariamente statuali (es. difesa, finanza, leggi elettorali, ordine e sicurezza pubblica, giurisdizione, diritto civile e penale, previdenza sociale, dogane, ecc. …).

Tale articolo  dopo aver elencato le materie riservate allo Stato in toto, fornisce un’ altrettanto analitica citazione di quelle disciplinate a titolo di “legislazione concorrente”: dello Stato per ciò che concerne i principi generali, che devono essere uguali in tutto il territorio nazionale, e delle Regioni per quanto riguarda i dettagli più appropriati per le singole realtà locali (es. sicurezza del lavoro, alimentazione, salute, sport, vie di comunicazione, trasporti ecc. …).

Le leggi regionalirimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini nelle cariche elettive”.

Il potere legislativo, delineato nelle 3 grandi aree fondamentali (leggi esclusive dello Stato, leggi concorrenti di Stato e Regioni, leggi regionali), va esercitato nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, nonché dagli obblighi internazionali.

La potestà normativa delle Regioni deve comunque armonizzarsi con la disciplina dettata dallo Stato per le materie c.d. “trasversali”, che può interferire con quella regionale (p. es. in tema di tutela della concorrenza, o di garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali).

L’art. 118 Cost. stabilisce che le funzioni amministrative siano attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

L’art. 119 Cost. prevede l’istituzione da parte dello Stato di un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante; nonché la destinazione da parte dello Stato stesso, di risorse aggiuntive e l’effettuazione di interventi speciali in favore degli enti locali che ne abbiano necessità, al fine di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale e di rimuovere gli squilibri economico-sociali. Ne risulta una communis ratio presente in maniera significativa nella parte riformata della Costituzione.

Si conferma così la configurazione unitaria di uno Stato che deve marciare ad una “sola velocità”, in perfetta armonia con i principi generali dell’ordinamento inseriti nella nostra Carta fondamentale, ed in particolar modo con quello proclamato dall’art. 5, che definisce la Repubblica “una ed indivisibile”.

L’art. 120 Cost. ha riservato altresì allo Stato un potere di intervento sostitutivo verso gli enti locali tutti, nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica, e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali.

La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.

Le Regioni, come si è avuto modo di osservare, dopo la “rivoluzione” della ripartizione delle competenze realizzate dal nuovo titolo V della Costituzione, sono titolari della più ampia percentuale del potere legislativo, così come i Comuni lo sono di quello amministrativo. Gli organi della Regione sono: a) il Consiglio omonimo, che esercita le potestà legislative attribuite alle Regioni e le altre funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle leggi, con potere altresì di fare proposte di legge al Parlamento; b) la Giunta, che ne è l’organo esecutivo; c) il Presidente della Giunta, che è il rappresentante della Regione, dirige la politica della Giunta e ne è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi al riguardo alle istruzioni del Governo della Repubblica.
Il Consiglio regionale elegge fra i suoi componenti un Presidente ed un ufficio di presidenza.
Alle Regioni è stata riconosciuta una significativa autonomia di rango costituzionale (presentazione di proposte di legge al Parlamento, promozione di referendum abrogativi, partecipazione all’elezione del Capo dello Stato), che trascende l’ambito propriamente locale e si proietta sul funzionamento dello Stato nella sua interezza.

Si è detto già della ripartizione tra legislazione esclusiva e concorrente dello Stato, e della vasta area residuale ora affidata alle Regioni che – va notato – hanno acquisito altresì una nuova proiezione internazionale.

Esse possono infatti partecipare alle decisioni preliminari agli atti normativi comunitari e possono inoltre provvedere all’attuazione ed all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione Europea, nel rispetto delle procedure sancite dallo Stato, comunque titolare di un potere sostitutivo nel caso di loro inadempienza (art. 117 Cost.).

Alle Regioni è dato anche, nelle materie di loro competenza, concludere accordi con Stati ed intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati dalle leggi nazionali.

A margine di quanto per sommi capi esposto, non possiamo esimerci dal riportare una lucida considerazione di Francesco Cossiga, il quale nel suo libro La versione di K (p.110)scrisse con disincantato realismo che Mariano Rumor in una prospettiva consociativa tra i due maggiori partiti di maggioranza e di opposizione (la DC ed il PCI), aveva avuto «l’idea di sbloccare l’istituzione delle regioni», le quali erano state dunque «varate per motivi eminentemente di equilibrio politico , non perché le si ritenesse necessarie per una migliore organizzazione dello Stato. Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì dove erano più forti. In Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria».

In un altro suo libro, Italiani sono sempre gli altri,  scrisse (p.169) che il meccanismo delle regioni «funzionò dal punto di vista politico, e servì ad allargare l’area della legittimità democratica del potere,ma sul piano sociale e culturale possiamo dire oggi che le Regioni sono state un disastro. Posti, stipendi, affari come tutte le grandi riforme consociative della DC, secondo il consolidato paradigma del carattere politico nazionale, per cui quando è impossibile cambiare non rimane che aggiungere, sovrapporre, raddoppiare, per conservare il potere. Insomma, detto con crudezza:che rubino, ma non troppo».

Nel corso dell’epidemia del coronavirus, si è venuta a determinare “un’emergenza costante”- se ci è consentito un ossimoro lessicale- cui ha fatto seguito una serie di incongruità logiche e di palesi incostituzionalità normative, con conflitti tra i D.P.C.M. e le ordinanze regionali, confuse derogatorie quest’ultime alla fumosa disciplina dei primi,  in ordine alle misure di prevenzione e di deterrenza da attivare  più limitatamente  o estesamente,  rispetto a quelle sancite a livello nazionale.

Su di un terreno giuridicamente melmoso, si sono inserite anche le ordinanze dei singoli sindaci, che possono essere emanate solo in via residuale, nel caso in cui si verifichino specifiche situazioni di emergenza a livello locale, che richiedano dei provvedimenti ancor più restrittivi di quelli statali, purché compatibili con le disposizioni generali del D.P.C.M. del momento.

Nel quadro fosco di una “navigazione a vista”del Legislatore nazionale, farraginosa, contraddittoria, prolissa e mal formulata, non possiamo esimerci dal ricordare due principi fondamentali della civiltà giuridica ereditata dal diritto romano, oggi calpestati in questa Italia che pur fu definita  Culla del diritto: In claris non fit interpretatio, e plurimae leges, maxima iniuria.

Già nell’ormai lontano 1973, il compianto nostro Maestro di procedura civile alla Sapienza, Virgilio Andrioli diceva: «L’Italia è la culla der diritto, ed er diritto ce s’è cullato così bene, che s’è addormito e nun se sveia più».

È passato quasi mezzo secolo, ed oggi la nostra civiltà del diritto è in coma profondo, mentre nella Cina contemporanea il diritto romano giustinianeo che in Italia fu partorito, sta vivendo la sua terza giovinezza, dopo quella della Rinascenza medioevale.

 

Avv. Prof. Tito Lucrezio Rizzo

(già Consigliere Capo Servizio Presidenza  Repubblica)

 

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