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Storie

Che cos’è un sistema? Equivoci e verità

  

«Ci sono “fatti esterni”, e noi possiamo dire come sono.
Ciò che non possiamo dire, perché non ha senso, è quello che i fatti  sono indipendentemente da ogni scelta concettuale».

              (H. Putnam, La sfida del realismo)

 

  1. L’idea di sistema è in realtà molto antica, anche se il termine che veniva usato era quello di Tutto o Totalità. La ragione del ricorso a questa parola è facile da riconoscere, per esempio nella concezione della polis di Aristotele: «Ma poiché la polis è un composto come un’altra qualsiasi di quelle cose che sono un tutto e risultano di molte parti, evidentemente bisognerà dapprima fare ricerca sul cittadino: la polis, infatti, è una pluralità di cittadini»(Politica, III, 1274b 40, 1275). In precedenza aveva chiarito che «chi non è in grado di vivere in una comunità politica [koinonia politiké] o non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, costui non fa parte della polis, ma è una “belva o un dio”» (Politica, I, 2. 1253 a 27-29, s. m.).

Da notare che nella polis erano di fatto solo i cittadini maschi adulti i protagonisti dei dibattiti che si svolgevano nell’agorà. Erano esclusi, oltre alle donne e ai giovani, i meteci che erano forestieri liberi, spesso mercanti e artigiani, e ovviamente gli schiavi. Aristotele, peraltro, non era favorevole alla democrazia, perché riteneva che sfociasse sempre in tirannia.
I neoplatonici del tardo impero romano (tra cui uno dei più influenti fu Plotino,  nella seconda metà del III secolo d. C.,  nonché la Scuola di Atene dei sec. V-VI ), indicavano il “governo misto” come forma politica da preferire perché più equilibrata. 

La filosofia greca diventò centrale nella teologia cristiana (quando tramite gli arabi fu riscoperto Aristotele), che dette vita ad una vera e propria assiologia antropologica, tutta rivolta alla trascendenza.

Ma in quanto vera erede dell’Impero romano, nella Chiesa prevalse l’orientamento “all’uomo-nel-mondo”, confinando la ricerca della trascendenza su questa terra nei conventi di clausura e negli ordini monastici.

Con la vittoria della corrente fautrice del Papa-Re, la Chiesa si elevò a custode, non solo spirituale, dell’ordine sociale posto come creato da Dio e quindi immutabile.
Era la legittimazione religiosa e della gerarchia sociale tipica della società nobiliare (nelle sue due forme fondamentali del feudalesimo e della monarchia assolutistica): nel Tutto Sociale, inteso come un organismo, ognuno era obbligato al posto che gli era stato assegnato secondo natura (ossia per status di nascita). Come ha ben detto il Pocock, stando ciascuno al suo posto, la partecipazione alla società è cosa buona e in questo senso, ma solo in questo, “cosa etica”, è conformità al volere di Dio di cui la Chiesa è l’unico legittimo custode. In questo senso è dunque chiaro che il Tutto Sociale è posto come un ordine gerarchiconobiltà/plebe”, così stabilendo anche la forma che devono assumere le relazioni tra le sue parti, ossia in base al rango.

Con la nascita (alla fine del XVII sec.) e l’affermazione dell’Illuminismo, la concezione cristiana fu però costretta a fare un passo indietro. L’umanesimo del Rinascimento italiano fu ulteriormente sviluppato dalle scienze fisiche e, soprattutto, dall’affermazione della società propriamente moderna nell’Inghilterra della fine del Seicento, in cui, con il Bill of Rights del 1689-90, il primo parlamento elettivo al mondo fu istituzionalizzato come parte integrante dei poteri dello Stato.

Dal 1750 l’Inghilterra sarà protagonista della prima rivoluzione industriale al mondo. Nel secolo XIX questo radicale mutamento sarà il fondamento della progressiva estensione della democrazia come forma di governo (quantomeno nel Regno Unito).
Questa è la ragione per cui la società non potè più essere intesa come un ordinamento per natura gerarchico. Si era affermata l’idea di diritti soggettivi tra tutti gli uomini e quindi l’idea di uguaglianza (in rapporto allo Stato). Il nascente socialismo legato all’industrializzazione, soprattutto nella sua versione marxista, ne fece un’utopia politica della “futura umanità”.

In Occidente la rivoluzione comunista è restata solo un’illusione: la famosa “Isola che non c’è” di Tommaso Moro, ma che la politica nell’Ottocento trasformò nella promessa di una società egualitaria e senza Stato che “ sicuramente ci sarà”.

Il socialismo, sovente in modo indiretto, alimenterà quello che è stato chiamato “umanesimo veteroeuropeo”. Ossia la forte propensione a dolersi delle disuguaglianze sociali che la società stessa genera, senza cogliere che è impossibile lo sviluppo a cui essa è necessariamente orientata senza produrre sempre nuove disuguaglianze.

Queste, pur importanti, non sono paragonabili con quelle della società cetuale. L’unica uguaglianza che abbia senso è perciò quella politica, che è comunque non a caso regolata sia dalla forma dello Stato (federale o accentrato) sia dai diversi meccanismi elettorali, e mediata dai partiti (altra forma di sistema organizzativo).

  1. Sul piano concettuale la società continua ad essere intesa come un Tutto. In Hegel e nei “giovani hegeliani” (sia quelli di sinistra che quelli di destra) la società è definita come “un tutto costituito da parti” dove, come è stato affermato successivamente (anche se ne aveva parlato già Aristotele), il “tutto è più della somma delle sue singole parti”.
    Questo “più” è inteso come la conseguenza delle relazioni tra le parti, dove le singole parti sono gli uomini intesi come soggetti agenti. Proprio la teoria dei sistemi sociali ha fatto emergere in questa visione un grave problema, che possiamo così sintetizzare.

Da dove vengono le regole in base alle quali gli attori interagiscono?

Esse possono essere soltanto “aspettative sociali” o una loro devianza.

Le relazioni presuppongono un qualche tipo di “ordine” sociale ed esso deve essere capace di mantenersi nel tempo/spazio, anche nel suo mutamento (per esempio, quello generato dallo sviluppo economico).
La natura del problema è ben illustrata da una tesi di Marx, ovvero che sono gli uomini che fanno la storia, ma non nelle condizioni che essi scelgono. In altri termini, gli attori trovano già pronti i tipi storici di relazioni con cui possono-devono interagire.

Non a caso a lungo se ne è parlato in termini di struttura. Il problema generale, allora, è: come si forma l’ordinamento sociale in cui gli uomini si “trovano” ad interagire?

Nella teoria dei sistemi, compresa la contemporanea teoria della complessità, se ne è parlato in termini di “emersione” (nel tentativo di tradurre “emergence”), come conseguenza dell’interconnessione tra “cause che dal basso vanno verso l’alto” (le singole azioni) e di “cause che dall’alto vanno verso il basso”:  i vincoli strutturali che il sistema in quanto tale, sia come Tutto sia come suo singolo sotto-sistema o infine come un’organizzazione di questo, impone alle sue singole parti e quindi alla forma delle loro interazioni.

Anche una devianza presuppone infatti una qualche norma predominante, altrimenti non sarebbe devianza. In questo senso un ordine sociale è sempre una “social emergence”, è qualcosa di simile a ciò che già Max Weber chiamava “effetti inintenzionali di azioni intenzionali”. Cerchiamo di approfondire questa fondamentale questione.

  1. Facendo un bilancio della cosiddetta Teoria Generale dei sistemi (da von Bertalanffy e von Newmann ad Ashby, Foester e Maturana), la teoria dei sistemi sociali sviluppata da Niklas Luhmann propone un autentico cambiamento di paradigma. Il sistema non è affatto il “macro” (dove il “micro” sarebbero le singole interazioni tra attori determinati), e in questo senso non è più un Tutto Organico, come si tende ancora oggi a credere. La metafora del corpo è ingannevole, soprattutto per quanto riguarda la società moderna occidentale, che non ha una struttura gerarchica ma per funzioni (vi torneremo).

Il “sistema” è in questo caso esplicitato in quanto forma teorica particolare, la quale inizia dall’ingiunzione: “traccia una distinzione”. Una distinzione è, sul piano logico, una “forma a due lati”, di cui un lato è indicato mentre l’altro lato è lasciato sullo sfondo. Tra il lato indicato, per esempio il Bene, e l’altro sullo sfondo v’è complementarietà. Non c’è l’uno senza l’altro, così come non c’è Bene senza Male, non c’è Vero senza Falso, non c’è Bello senza Brutto e così via.

La distinzione da cui inizia la teoria è dunque quella “sistema/ambiente”.  che  significa che qualsiasi “oggetto”, sia micro che macro, è colto in quanto sistema in un ambiente.

Limitandoci ai sistemi sociali, ciò che li caratterizza proprio in quanto “sociali” è il tipo particolare di operazione che assicura la loro specifica forma di autopoiesi (o autoriproduzione). La società si caratterizza per avere la comunicazione come operazione autopoietica di base (lo stesso vale per i suoi sottosistemi primari). Vi sono poi i sistemi organizzativi, la cui operazione di base è la decisione, ossia una particolare forma di comunicazione.

Infine v’è l’interazione faccia-a-faccia, dove il sistema è determinato dalle specifiche individualità che interagiscono (o non interagiscono più), tenuto conto del contesto sociale e, soprattutto, dei ruoli ricoperti in quella interazione.

I sistemi psichici (o individui) sono invece caratterizzati da pensieri e quindi da un’operazione che è solo della psiche e solo di questa, sul presupposto delle biografie individuali. Nessuno può leggere i pensieri degli altri, né può avere i loro stessi identici pensieri. Per ovvie ragioni evolutive, psiche e società sono in una relazione particolare che definiamo co-evolutiva sul piano dell’evoluzione sociale, e che oggi a noi si presenta come storia.

In breve, la società è condizione di possibilità della psiche, la psiche è condizione di possibilità della società, ma proprio per questo la psiche non è un elemento della società né questa è costituita da quella.
In estrema sintesi, la società non è costituita da attori tramite le loro interazioni, come invece quasi sempre si continua a credere. È proprio perché nessuno può “leggere” o percepire i pensieri (tanto meno la società) che gli uomini possono mentire, elaborare strategie di medio periodo, recitare ruoli (era l’aspetto su cui insisteva il grande sociologo Erving Goffman, per quanto riguarda le relazioni in pubblico, dove è più difficile deviare). Come si vede, il cambio di paradigma è radicale.

In generale, qualsiasi “oggetto” sarà allora un “sistema in un ambiente”.           Di conseguenza, sia l’individuo che la società sono un “sistema in un ambiente”.
Così anche la “relazione” di un sistema psichico (o soggetto) è una relazione “sistema/ambiente”, dove anche l’ambiente è necessariamente un “sistema” o una pluralità di sistemi, e precisamente la società o “sistema sociale complessivo”.

La relazione è dunque sociale perché è in ogni caso un rapporto bidirezionale da sistema a sistema, dove però ciascuno è costretto a considerare l’altro come proprio ambiente: dal sistema psichico al sistema sociale (magari per il tramite di una organizzazione, associazione, sindacato e così via) e da questo a quello (ecco le cause che vanno dal basso in alto e viceversa).

Detto con altre parole: senza attori non vi sarebbero comunicazioni, ma senza società non vi sarebbero pensieri soggettivi e ambedue devono riprodurre i confini che li separano dal sistema con cui è accoppiato in modo co-evolutivo.

Questo perché, in termini generali, il sistema per mantenersi nel tempo/spazio deve continuamente riprodurre la differenza tra sé e l’ambiente in cui agisce, deve cioè mantenere il confine che lo separa, proprio in quanto sistema, dal sistema che gli è dato (dalla natura e dalla storia) come suo ambiente pertinente.
Pensate a un’organizzazione qualsiasi: se chiunque potesse entrare e uscire facendo quello che gli pare e piace l’organizzazione in quanto tale cesserebbe di esistere. Questo, per quanto riguarda gli attori umani è il significato profondo del famoso Cogito ergo sum di Cartesio: “poiché penso, io sono”.
Per esempio, è noto che la cosiddetta personalità multipla o schizofrenia è una conseguenza di gravi traumi che impediscono la costante riproduzione della differenza tra l’io individuale e l’ambiente sociale (iniziando dalla famiglia), fenomeno molto studiato dalla scuola di Palo Alto (California), che si rifà agli studi sulla comunicazione e l’informazione di Gregory Bateson.

Come accade in alcuni passi dell’Iliade, dove gli eroi sentono parlare nella loro testa il dio o la dea, così lo schizofrenico sente le voci dentro di sé e questo lo dissocia. L’io diventa i “molti” che parlano in lui, quasi sempre in conflitto tra di loro. La coscienza si è frammentata. 

Ovviamente, la “temporalità storica” di psiche e società è differente. Sappiamo che una struttura sociale può mantenersi per secoli con piccoli cambiamenti di cui gli individui restano inconsapevoli (soprattutto in una società che non conosce la scrittura o la cui cultura è rimasta sostanzialmente orale). Ma sappiamo anche che essa può crollare per eventi catastrofici anche in tempi relativamente brevi (come accadde, per esempio, alla civiltà Maya).

  1. Ai fini di una sua applicazione sul piano dell’analisi storica, la teoria dei sistemi sociali ha ripreso e sviluppato il concetto di “forme della differenziazione societaria” (già presente in Emile Durkheim) per cogliere la struttura dominante della società sul piano della storia universale.

Tale concetto è imprescindibile per poter usare la storia in chiave comparata, tanto nel tempo quanto nello spazio.
La comparazione, peraltro, diventa proficua e metodologicamente corretta solo quando si usi consapevolmente una concettualità che consenta di far emergere proprio le differenze strutturali e di spiegarle alla luce di quella stessa concettualità. Per potersi mantenere nel tempo ogni società deve ovviamente cercare di autoriprodursi nelle più diverse contingenze storiche: alcune cose cambiano, ma altre non mutano o lo fanno in modo poco percepibile. 

È questo che chiamiamo “strutture”. La struttura dominante tende a una autoriproduzione immanente e in questo senso è dominante, perché è in grado di determinare i modi con cui altre e differenti forme di differenziazione, ereditate dalla storia, possono attivarsi.
Si pensi all’obbligo di endogamia di ceto nelle società nobiliari, con il quale si riproduceva nel tempo la distinzione sociale tra nobili e plebei, ossia la gerarchia sociale che caratterizzava questa forma di differenziazione societaria, finché essa restò dominante.
Oggi essa è tramontata definitivamente, e non a caso in Occidente si è affermata l’idea di “amore” come legame che sta a fondamento del matrimonio. Lo stesso accade anche oggi nella società indiana, dove i matrimoni sono possibili solo tra membri di una data jati che a sua volta è una sottoclasse di una certa casta (uno degli originari quattro Varna dei Veda, i libri sacri dell’India portati dagli invasori Arii a partire almeno dal 1500 a. C., forse da prima).

Da notare che il concetto di casta, opera socialmente come una distinzione sociale nel nostro senso (è per questo che ne parlo). Essa, infatti, governa le forme delle relazioni sociali. Inoltre implica necessariamente i fuori-casta, detti dalit, coloro che fanno mestieri (jati) considerati tra i più impuri e contaminanti: i lavandai, gli addetti ai crematori, i tintori, i manovali più umili. Tutti non a caso chiamati “intoccabili”. Il concetto di casta è infatti strettamente associato a quello di grado di purezza, che a sua volta è fortemente correlato sia con i mestieri sia con il cibo.

Questo è un esempio concreto e attuale di come un’antica forma di differenziazione sia ancora dominante nonostante, nel frattempo, l’India si sia avviata da almeno una quarantina d’anni ad assumere una forma di differenziazione per sistemi di funzione (economia, politica, scienza, arte, diritto ecc.) sempre più forte e consolidata. Qui evidentemente il peso della tradizione religiosa tende ad essere ancora rilevante, nonostante le imponenti trasformazioni sociali di questo enorme subcontinente (su questo non posso soffermarmi).

Del resto, abbiamo anche l’esempio della Cina del dopo Mao, una società che dalla metà degli anni Ottanta ha avviato un imponente sviluppo economico.       

In questo caso non è l’endogamia come tale che riproduce una società gerarchica nonostante lo sviluppo, ma il predominio incontrastato del partito comunista, che alterna l’uso sistematico della forza contro tutti coloro che considera come “nemici del popolo” (cioè del partito) con il ricorso al tradizionale paternalismo della vecchia cultura imperiale (tipica della cosiddetta “burocrazia celeste”).

In questo caso la forma della differenziazione dominante è quella centro/periferia, tipica delle società imperiali di un tempo, ma dove oggi il centro è la direzione del PCC che si dirama verso la periferia.

Questi fenomeni vanno interpretati alla luce del fatto che, con la scoperta da parte dell’Illuminismo della Storia, nel senso in cui noi oggi usiamo questo termine, diventa possibile (e persino necessario) osservare “il contemporaneo del non contemporaneo”.

Ovvero, la coesistenza nel tempo/spazio di forme diverse di società regionali, sebbene ormai su molti piani si vada decisamente nella direzione della società mondo. Nei termini del concetto di forme della differenziazione, si tratta del fatto che, mentre su piani come l’economia, la scienza, l’arte, i mass-media, ma persino la cucina, la società è diventata  globale (è questo il vero significato del termine globalizzazione), su altri piani e a seconda delle regioni permangono altre forme dominanti di differenziazione.

Per esempio, è chiaro che sul piano politico rimangono gli Stati nazionali, anche se sul piano economico l’interdipendenza è diventata tale che di fatto v’è un unico mercato mondiale (si pensi alle tecnologie, soprattutto quelle elettroniche).
Ma lo stesso vale per la scienza, la tecnologia, l’arte e, in Occidente, anche per i principi di libertà e diritti dell’uomo. Non è un caso se vi sono diversi importanti organismi sovranazionali, come la BCE, l’OMS, la Banca Mondiale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Non bisogna farsi ingannare dalla permanenza delle diverse lingue nazionali. Ormai l’inglese è diventata la lingua franca a livello mondiale e forse persino una sorta di koinè transnazionale, come si vede dall’uso ormai comune di termini inglesi per quasi tutto, anche nel linguaggio comune, dai marchi (o brands), per non parlare del linguaggio scientifico, artistico e musicale.

 

Nicolò Addario

(Prof.re ordinario di Sociologia generale,

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)

 

Testi di riferimento

1971 von Glasersfeld, Linguaggio e comunicazione nel costruttivismo radicale, Clup, Milano 1989; W. Ross Ashby, Introduzione alla cibernetica, Einaudi, Torino, 1971.

Per il suo carattere di rassegna critica dell’uso del concetto di sistema in chiave organicista, si raccomanda:

A.J. Bahm, Five system concepts of society, in «General Systems», XXVIII (1983-84), pp. 43-57.

Sul piano epistemologico è ancora utile P. Curry, Theories as systems, in “Behavioral Science”, Vol. 29, 1984, pp. 270-73.

Sul metodo si veda anche N. Addario, Novità e paradossi del costruttivismo radicale:problemi di un’epistemologia naturalizzata, in “Teoria Sociologica”, n. 2. 1993.

Sul concetto di autopoiesi vedi H. Maturana, Autopoiesis, in M. Zeleny (1981) (ed.), Autopoiesis: a theory of living organization, North Holland, New York, pp. 21-35.

Per quanto riguarda le forme della differenziazione, si veda N. Addario e A. Cevolini, Sociologia della modernità. Forme e conseguenze della complessità sociale, Egea Bocconi, Milano, 2012. Di Luhmann si veda l’opera magna Theory of society, Stanford University Press, Stanford, 2012-2013, 2 Voll.

Il concetto di distinzione come “forma a due lati” è stato introdotto dal logico G. Spencer Brown, Laws of form, London, Allen and Unwin, 1969.                               Per l’uso dell’approccio luhmaniano allo studio della società si rinvia a N. Addario (a cura di), Teoria dei sistemi sociali e modernità, Carocci, Roma, 2003.

Utile in questo senso anche R. K. Sawyer, Social emergence. Societies as complex systems, Cambridge University Press, Cambridge, 2009.

Sull’uso politico dei valori si veda N. Addario, Valori, mutamento sociale e secolarizzazione, in “Quaderni di Sociologia”, 73, 2017, pp. 107-135.

Sull’utopia, dalla fine del Settecento, come genere letterario e infine come “formula di contingenza” tipicamente politica: N. Addario, La fine della morale. Genealogia, forme storiche e criticità dell’autodescrizione della società moderna, Mimesis, Milano, 2018-19, 2 Voll. (vol. I, cap. XIII; vol. II, specie il cap. XIX). 

 

 

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