"Perché gli uomini creano opere d’arte?
Per averle a disposizione quando la natura spegne loro la luce"
Elogio dell'Arte
Perchè nasce un’opera d’arte
Per capire l’arte occorre superare la pur necessaria Storia dell’Arte – invenzione tardo-illuminista – per respirare a pieni polmoni le aure, i venti, le tempeste, le bufere, le primavere, le estati, gli autunni, gli inverni; le adolescenze e le maturità; le fanciullezze e le vecchiaie; gli amori e gli odi; le avventure e le passioni; le stanchezze e gli ardori: gli accadimenti, i fatti che la motivano, le danno sostanza.
Perché l’arte siamo noi: la nostra quintessenza, desiderosa di uscire dal buio della materia grigia dei gangli della nostra scatola cranica, per divenire parola, la più distintamente pronunciata, per essere la più distintamente compresa, ridetta.
Raccontata, ammirata, l’arte è interpretazione della vita: atto di fede di una religione universale, antica quanto l’Uomo – anzi, la Donna: Lucy – comparso cosciente sulla Terra.
L’origine dell’arte è la nostra origine: parole (il poema l’Iliade, che un tempo si studiava alle Medie e la classe si divideva fra chi teneva per Ettore, chi per Achille: è storia, memoria, mito? Troia esistette?, subì dieci distruzioni?, suoni, danze, riti e il lancio della tentazione dell’assurdo: vedere, far credere di vedere l’invisibile per renderlo visibile.
In forme plastiche, in immagini, nell’ostensione dei nostri corpi, nel canto, nei riti che ci accompagnano in ogni giorno della nostra vita.
È estetica, è emozione della vita, dell’esserci qui ed ora, venendo dal mistero, viaggiando nel mistero, proiettati nel mistero.
Mitologia e Teologia sono Filo–Sofia (amore del sapere, desiderio di sapere, di capire ) che si pareggiano nell’umanità dell’esistere nei confini dell’attimo presente. Sono il desiderio pressante di sfiorare l’eternità – per coloro che credono nel Cristo risorto l’eternità la raggiungono con la Fede – di rappresentare l’eternità.
Cosa rapivano al tempo, i grandi artisti di sempre? Michelangelo: perché rovinarsi occhi e schiena per dipingere la volta della Sistina, accovacciato a testa in giù su ponteggi da brivido? Anche Giotto ad Assisi, agli Scrovegni, non affrescava perché non aveva altro da fare!
Ad accompagnarci in questa breve riflessione sulla nascita di un lavoro d’arte (un’opera?) ricordando il significato rude e duro di opus, sarà Aristotele, secondo il quale il fondamento della bellezza e dell’arte deve raccogliere tre proprietà essenziali: taxis (misura), simmetria (ordine), kài mégethos (proporzione). Un principio analogo a quello contenuto nel Libro della Sapienza (XI,21):«Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti»(“hai disposto tutte le cose in misura, numero e peso”).
Perché ho fatto questa scelta che mi guida nella storia di critico e storico dell’arte cosiddetta “medievale” da oltre cinquant’anni?
Ricordo quanto scrisse nel 1938 Henri Focillon (Digione, 1881-New Haven, 1943) a proposito delle realizzazioni artistiche dell'anno Mille o degli ultimi due secoli prima del Mille (pittura, miniatura, scultura): «ce n’est pas par leur vétusté. Mais parce qu’elles ont gardé de leur jeunesse que ces belles oevreus nos intéressent»: pensando a questa loro giovinezza – significa rinascita o nuova nascita – vale la pena ricercare, riscoprire, studiare, comprendere le opere, gli artisti di questi secoli che (da Boccaccio in poi, quando elogia Giotto nella famosa novella 5 della VI Giornata del Decamerone:«…avendo egli quell’arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degl’ ignoranti che a compiacere all ‘ntelletto dei savi dipingendo, era stata sepulta…»), furono considerati opera di persone rozze, ignoranti, preda di miti e tante, tante paure dell’Inferno e niente altro.
Bisogna attendere le prime avvisaglie di valutazione positiva nel secolo dei Lumi (Luigi Antonio Lanzi, gesuita archeologo fiorentino, 1732-1810) e, soprattutto, lo Sturm und Drang[1] e il gusto ritrovato per un sentimento del tempo, della storia, emozionato ed emozionante.
Nasce una vera storia che riapre i battenti su di un periodo per il quale, non solo si erano chiusi, erano stati letteralmente murati da quattro secoli di ininterrotte invasioni di popolazioni guerriere.
Davanti a queste opere dall’apparenza incerta, a volte, quasi infantile, dalla sostanza ricca di simboli, metafore, “figure” paraboliche, bisogna trovare in se stessi non lo sguardo dello spettatore, attento e ammirato, curioso e studioso del XXI secolo, ma l’anima orante di quelle assemblee (le chiese, ekklesiai) per le quali quei pittori, magari fuggiti dall’Oriente iconoclasta, avevano dato tutta la loro sapienza, tutta la loro esperienza, tutta la loro bravura, tutta la loro emozione… per una rappresentazione non solo dei visibilia rubati agli invisibilia … per la speranza di un rapporto empatico con l’assemblea che avrebbe guardato, cercato di capire, ammirato, magari impaurendosi, i loro affreschi, i codici, i bassorilievi, le statue.
E, forse, davanti a quelle opere aveva pregato.
Francesco Butturini
(Medievalista)
[1] Sturm und Drang nell'Enciclopedia Treccani, in www.treccani.it/enciclopedia/sturm-und-drang/.
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