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 "La poesia in quanto tale è elemento

costitutivo della natura umana"

 

InCanto Dantesco

Il “visibile parlare”: Dante e l’estetica come paideia

  

Che l’arte costituisca una rappresentazione e una interpretazione della realtà è cosa nota; che essa divenga anche un mezzo di elevazione spirituale e morale è invece acquisizione del Medioevo. Gregorio Magno, nel concilio di Arras del 1024, scriveva che «Illitterati quod per scripturam non possunt intueri, hoc per quaedam picturae lineamenta contemplantur».

Non si capirà mai a fondo lo spirito dell’uomo del Medioevo e di Dante se le manifestazioni empiriche della poiesi umana si immaginano svincolate da una visione unitaria del sapere che non persegua come scopo ultimo l’avvicinamento dell’uomo al mistero della divinità. Questo è lo spirito del Medioevo, questa la base della concezione estetica del Sommo Poeta.
Dante ha un preciso concetto estetico della bellezza, e sa applicarlo alla musica, all’arte figurativa e ovviamente alla poesia. Esso è enunciato in modo eloquente nel Convivio, ove si afferma che la bellezza risiede nell’armonia delle parti:
«Quella cosa dice l'uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l'uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo debito de l'arte, sono intra sè rispondenti».
Nel De Vulgari Eloquentia ci darà poi una definizione immortale di cosa sia la poesia (e in cosa essa si distingua dal linguaggio prosastico e scientifico), chiamandola fabricatio verborum armonizatorum, ossia qualcosa che è “per legame musaico armonizzata” che non si può «de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia» (Conv. I VII, 14).
Questo concetto della bellezza come armonia e proporzione, di ascendenza classica, si carica di nuovi significati all’interno dell’esperienza ultraterrena della Divina Commedia.
È lì che diventa palese come Dante, imbevuto di quell’enciclopedismo che sussumeva in maniera totalizzante la multiformità del mondo e le sue molteplici manifestazioni, non disgiunga il concetto di estetica dalle sue ricadute nella sfera dell’etica. L’intero impianto della Divina Commedia si regge su questa polisemia del viaggio, che sposa la percezione (aisthesis, in greco) con la morale, poiché non è possibile considerare separate la dimensione estetica da quella religiosa e più propriamente soteriologica: questo vale per la Divina Commedia, ma in generale per tutta l’arte medievale.

L’uomo del Medioevo integra e supera il concetto greco di kalokagathia: se per i Greci la bellezza esteriore era la manifestazione di un grande controllo delle passioni che l’uomo classico esercitava sui suoi moti interiori, per i medievali tutto ciò che è bello non ha bisogno di essere integrato ontologicamente dalla nozione di buono, perché bellezza e bontà vengono a coincidere; per di più, se la bellezza del Creato, ammirata da San Francesco nel suo Cantico delle Creature, è espressione della potenza divina, la bellezza artistica, sua ancella e imitatrice, si pone come il mezzo che può guidare l’uomo al raggiungimento di quella perfezione morale che spesso gli sfugge.
Come scriveva un grande mistico medievale, Alano di Lilla, tutto il mondo è come un libro e una pittura per noi (omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est), e deve essere conosciuto attraverso il senso che più ci apre alle esperienze del mondo, quello della vista.
Non è un caso che il viaggio oltremondano di Dante sia un progressivo avvicinarsi alla luce divina, dopo che il pellegrino abbia dissipato da sé le tenebre del peccato e dei gironi infernali.
Soltanto uno sguardo estetico, aperto alla realtà del creato, ma altresì capace di scorgere la luce di Dio e la molteplicità della bellezza del mondo, può aprirsi alla contemplazione del divino: è così che la visione estetica diviene estatica.
Particolare rilievo assume, nell’esplorazione nei tre regni, il ruolo della luce, metafora di salvezza e di gloria eterna. Consapevole dei mutamenti del gusto artistico ed estetico a cavallo tra Duecento e Trecento, Dante nelle tre cantiche assegna alla luce un ruolo differente, corrispondente grosso modo alla differenza tra due modi architettonici di concepire il mondo, ossia la cattedrale romanica e quella gotica.
La luce è praticamente assente nell’Inferno, il luogo della perdizione e della dannazione; più si scende in profondità nei vari gironi, più l’oscurità si intensifica. Inquadrato all’interno dell’allegoria che fa corrispondere il buio al peccato, lo stesso Virgilio, che rappresenta il lume della Ragione, nel tempo in cui il Sommo Poeta era subietto al traviamento morale, appare indistinto, lontano da ogni fonte luminosa («parea fioco», Inf. I, 63).

Nei gironi infernali Dante si muove nell’ “aere perso”, e la luce vive solo nelle rievocazioni dei dannati, quando i peccatori raccontano ai due viandanti le loro vite passate.
Questa quasi totale assenza di fonti luminose riproduce quegli effetti di luce delle cattedrali romaniche, dove gli spazi di penombra che calano dall’alto si mischiano con le fiammelle dei ceri; è l’immagine di una religiosità sofferta e timorosa, dove il buio e la luce appaiono nettamente separati, e la possanza massiccia dell’edificio evoca anche dall’esterno il distacco tra la vita mondana e la sacralità della fede.
Analogamente, tutti i mostri infernali, le creature “strane” e difformi, a metà tra una divertita ferinità (i diavoli, Gerione, Cerbero) e un raccapricciante grottesco, si modellano su quel trionfo dell’orrido e del mostruoso delle sculture romaniche. Oseremmo dire, sulla linea del filosofo Rosario Assunto, che l’Inferno è romanico nella concezione e nella percezione.
Nel Paradiso, invece, il trionfo della luce è espressione estetica del mondo celeste. Essa trova corrispondenza nella più recente architettura delle cattedrali gotiche, dove i raggi solari che filtrano dalle vetrate simboleggiano per l’uomo medievale la verginità della Madre di Dio: «ut vitrum non laeditur sole penetrante, sic illaesa creditur virgo post et ante». È chiaro che, se la luce richiama la grazia divina, poiché è espressione dell’Incarnazione di Cristo nel corpo della Vergine Maria, allora la luce delle cattedrali gotiche è assimilabile a tutta quella luminosità eterea che permea i cieli del Paradiso: l’impenetrabilità della materia che impediva l’ingresso della luce diretta nelle chiese romaniche e nell’Inferno lascia il posto alla policromia della luce diffusa delle chiese gotiche e del Paradiso.
Tra i due mondi, antitetici nella luce e nell’architettura, c’è il regno mediano, il Purgatorio. Ed è proprio nel Purgatorio, in particolare nella prima cornice dove si purificano le anime dei superbi, che Dante rende palese la sua concezione estetica dell’arte come imitazione perfetta della natura, ovvero, per dirla con San Tommaso, dell’immagine come ciò che si spinge verso la somiglianza di un’altra cosa (Summa I, 35: «imago proprie dicitur quod procedit ad similitudinem alterius»).
Nel canto X e nel canto XII del Purgatorio, è proprio attraverso l’arte che i superbi sono incoraggiati e praticamente ammaestrati a redimersi dal loro peccato. Sul costone della roccia Dante si imbatte in una serie di altorilievi (“intagli”) o gruppi di statue lavorate in formelle nel marmo candido della parete, raffiguranti exempla di mansuetudine e umiltà: il primo è l’arcangelo Gabriele  con la Vergine nella scena dell’Annunciazione, il secondo è l’episodio biblico di Davide che si umilia innanzi all’Arca Santa e danza seminudo sotto gli occhi di sua moglie Micol, il terzo raffigura Traiano che si muove a compassione della “vedovella” cui hanno ucciso il figlio.
Analogamente, nel canto XII, all’uscita dalla cornice, Dante descrive i bassorilievi, scolpiti sul pavimento, che riproducono esempi di superbia punita, tra cui compaiono Lucifero, il gigante Briareo, Nembrot, Niobe, Saul, Ciro e Oloferne. Questi due cicli di raffigurazioni costituiscono un “visibile parlare” (Purg. X, 95): il loro realismo è così perfetto, la mimesi della realtà così precisa, che Dante sente di insistere più volte sull’alta qualità artistica di queste scene (Purg. XII, 67-69):

 «Morti li morti e i vivi parean vivi:

 non vide mei di me chi vide il vero,

 quant’io calcai, fin che chinato givi».

L’affermazione, che riprende anche i passi di Purg. X, 31-33 e 94-98, ribadisce quella concezione estetica dell’arte come perfetta imitazione del reale, e altresì connota un giudizio di pregio dell’opera d’arte proporzionato alla sua capacità di smuovere le coscienze oltre che i sensi dello spettatore.
Ovviamente, questo realismo artistico che rappresenta l’ideale estetico unico in grado di penetrare nelle menti degli osservatori e che svolge la funzione paideutica di ammaestramento delle coscienze, non può essere paragonato alla forza creatrice di Dio né costituire una risposta sufficiente a porre l’Uomo sopra la religione.
Per quanto possano apparire perfette, degno di un Policleto (Purg. X, 32) o di chi «di pennel fu maestro o di stile» (Purg. X, 64) l’arte è sempre ancella di Dio.
Certamente, le immagini erano parte integrante dell’esperienza religiosa, e nel Medioevo esse acquisivano un significato altro proprio per la loro collocazione, se all’interno delle Chiese o dei luoghi politici delle istituzioni. Nel Purgatorio esse, poiché aiutano le anime purganti a purificarsi, contribuiscono con la loro presenza a precisare la fisionomia del luogo in cui sono esposte e a incoraggiare quell’atto devozionale che ivi deve realizzarsi.
Essendo un regno transitorio, non definitivo, destinato ad una permanenza limitata, il Purgatorio è il luogo estetico per eccellenza, perché è il regno più umano, dove l’esperienza della vita non è conchiusa in una dannazione senza scampo e non è nemmeno attualizzata, in senso aristotelico, nella gloria eterna dei beati: il Purgatorio è una esperienza in fieri, la luce è quella naturale del Sole, e l’arte ha una funzione attiva e sollecitativa verso il bene; al contrario, nel buio e nell’oscurità dell’Inferno, le immagini, le statue e le figurazioni artistiche perderebbero di senso né aiuterebbero i dannati a smuoversi dalla loro condizione, ed è per questo che nell’Inferno non c’è traccia di opere d’arte.
Dante appare infine pienamente consapevole che i canoni estetici non sono assoluti, ma sono soggetti al cambiamento: le mode sono passeggere, pittori e poeti famosi saranno prima o poi circondati dall’oblio con l’ascesa di nuovi artisti che li spodesteranno: «credette Cimabue ne la pittura tener lo campo» (Purg. XI, 94-95) ed era stato invece surclassato da Giotto; Guido Guinizzelli si poneva come l’autorità nella poesia d’amore, ma era stato superato da Cavalcanti, ed entrambi erano destinati a cedere il passo a qualcuno che avrebbe oscurato la loro fama: «e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà dal nido» (Purg. XI, 98-99).
Che Dante voglia alludere qui a se stesso è evidente, nonostante alcuni critici si siano sforzati vanamente di negarlo per eliminare al poeta l’imbarazzo di una fin troppo tronfia autocelebrazione, per di più nei canti dedicati ai superbi (nel canto XIII, 136-138 Dante sembra ammettere davanti agli invidiosi della seconda cornice di aver ceduto al peccato di superbia). Ma ciò che è da ricordare è che, a prescindere dal valore estetico, l’arte deve essere messa sempre in relazione con il suo valore pedagogico finalizzato ad una redenzione spirituale e religiosa.
Tra l’Inferno e il Paradiso c’è il Purgatorio, luogo dell’esperienza estetica. È qui che l’arte si fa mediazione tra umano e divino, tra dannazione e salvezza. Del resto, «la Bellezza salverà il mondo», affermava il principe Myškin nell’Idiota di Dostoevskij: Dante, come al solito, lo aveva già capito.

 

 

Prof. Fjodor Montemurro

(Presidente Società Dante Alighieri, Matera)

 

dante monarchia. edizione 1758 incipit

Federico Zuccari
Divina Commedia illustrata, 1586 circa

 

 

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