"Consegnare il giorno di oggi a quello di domani
custodendo la memoria delle tempeste"
Storie
Quando, nel secolo della rivoluzione permanente, l’arte diventa l’Arte con la A maiuscola
Il grande critico d’arte E. H. Gombrich inizia la sua Storia dell’arte (Einaudi, 1973, p. 26) in un modo che rappresenta un buon punto di partenza per introdurci alla tesi che vorrei provare a sostenere.
«Non sappiamo come sia nata l’arte, più di quanto sappiamo come sia sorto il linguaggio. Se intendiamo per arte certe attività come la costruzione di templi e di case, la creazione di pitture e sculture o la tessitura delle stoffe, non c’è al mondo popolo che non sia artista. Se, d’altra parte intendiamo per arte qualcosa di raro e squisito di cui godere nei musei e nelle mostre o da impiegare in belle decorazioni nei salotti più raffinati, dobbiamo riconoscere che questa particolare accezione della parola è stata introdotta solo di recente, e che molti dei maggiori costruttori, pittori o scultori del passato non ne ebbero il più lontano sospetto».
Questo vale per i disegni di bisonti nella grotta di Altamira (Spagna) o di renne nella caverna di Font-de-Gaume (Francia), per gli architrave finemente scolpiti che decorano le abitazioni dei capi Maori o le teste e le altre sculture in bronzo della Nigeria, le maschere africane e della Nuova Guinea o dell’Alaska, i vasi d’argilla a forma di testa d’uomo del Perù (Inca), la scultura del dio della pioggia Tlaloc (Messico) rappresentato come un terrificante demone dalle sembianze di un enorme serpente, il terribile teschio scolpito dai Maya che faceva da basamento ad un altare dove si facevano sacrifici umani.
Sappiamo, peraltro, che molti di questi manufatti erano strettamente collegati alla magia e spesso avevano scopi rituali, servivano a propiziarsi divinità, a combattere spiriti malefici.
Fino a qualche tempo fa anche in Occidente v’era la credenza che ciò che veniva fatto al ritratto accadeva alla persona che esso rappresentava.
Fattucchiere, mediconi, a imitazione degli sciamani dei popoli “primitivi”, facevano un rozzo fantoccio a somiglianza del nemico e lo infilzavano con un grosso ago o lo bruciavano. È dunque alquanto probabile l’ipotesi che sculture, templi, danze siano parte dell’universale credenza nell’influenza delle immagini (e delle rappresentazioni simboliche: totem, emblemi, stemmi araldici, bandiere).
Le grandi sculture dell’antica Grecia o di Roma non per caso rappresentano divinità, personaggi mitologici, personalità di grande rilievo (soprattutto imperatori).
Anche buona parte della pittura rinascimentale, compresi gli affreschi, è costituita da ritratti di nobili, madonne (famose le diverse annunciazioni), di scene bibliche, miracoli, santi.
L’artista era considerato poco più di un buon artigiano e quasi sempre non firmava l’opera. Anche perché si trattava quasi sempre di opere di botteghe e quindi opere collettive, specialmente quando nelle città italiane si affermarono le corporazioni. Ciò che veniva rappresentato (l’oggetto dell’opera) era dunque sempre deciso non dai pittori o scultori, ma dal committente che era quasi sempre la Chiesa o qualche nobile o principe.
Con il rinascimento si diffusero i “mecenati” che si rivolgevano a personaggi che si erano distinti come particolarmente abili, anche nello sviluppo di un proprio stile. È ben noto, per esempio, come Michelangelo abbia cercato di imporsi su come dipingere la Cappella Sistina (soprattutto per quanto riguarda i nudi).
Le corti si servivano dei migliori e più famosi artigiani anche per distinguersi dai “plebei” proprio in quanto “nobili”, dal “sangue blu”. Nelle società nobiliari vigeva l’endogamia di ceto per assicurare titolo e proprietà dei possedimenti ai discendenti. Quando lo Stato iniziò ad avere crescenti bisogni di denaro (per le continue guerre e le sfarzose corti: si pensi alla Versailles di Luigi XIV) e di competenze che la nobiltà non aveva, la vendita di titoli nobiliari poteva procurare entrambi.
Così in Francia si iniziò a parlare di noblesse d’epée per distinguerla dalla noblesse de robe (titolo nobiliare comprato), e separare così la vera nobiltà da quella d’origine plebea. Nel Settecento i “diritti” rinviavano alla “libertà” e questa era intesa come privilegio di ceto. Per questo la nobiltà è stata giustamente considerata una “casta”, dove l’endogamia è ancora oggi rigidissima (E. G. Barber, The bourgeoisie in 18th century France, Princeton University Press, 1970, pp. 141-46). Ma la cosa per certi stupefacente era che proprio la noblesse de robe aderiva pienamente a questa cultura discriminante e cercava di diventare noblesse d’epée tramite matrimoni con nobili economicamente falliti. Per quello che in questa sede ci interessa, la conseguenza immediata fu che la nascente e ricca borghesia non influenzò minimamente il gusto, almeno sino alla rivoluzione.
Questa dipendenza dell’arte (in tutte le sue forme, compresa l’architettura) dalla nobiltà è particolarmente evidente quando confrontiamo la pittura olandese del cosiddetto secolo d’oro (il Seicento), con i suoi interni e personaggi borghesi e persino volgari, paesaggi rurali (Rubens, van Dyck, van Larr, Rembrandt, Vermeer ecc.: si veda S. Schama, The embarrassment of riches, Harper Press, London, 2004) con la pittura in voga presso la nobiltà del resto dell’Europa occidentale, soprattutto quella cattolica.
Ma è un cambiamento che si nota soltanto retrospettivamente, in particolare dopo la rivoluzione francese, quando l’Illuminismo elabora un concetto di “storia” che include “il contemporaneo del non contemporaneo”, ovvero la coesistenza nello spazio di tempi storici differenti, di popoli che vivevano in modi e con usanze e credenze che il “secolo della ragione” riteneva superati da tempi immemori (da cui il “buon selvaggio” di cui parlava Rousseau, ma pure i primi resoconti etnografici o romanzi e racconti d’avventura d’oltreoceano, come I viaggi di Gulliver di J. Swift, il Robinson Crusoe di D. Defoe, Il diavolo nella bottiglia di R. L. Stevenson).
«La gran massa degli artisti era ancora organizzata in corporazioni e compagnie, si valeva ancora di apprendisti come gli altri artigiani, e dipendeva per le ordinazioni dai ricchi aristocratici che si facevano decorare i castelli e le dimore di campagna, e volevano arricchire del proprio ritratto la galleria degli antenati ... Anche se le mode andavano mutando … il fine della scultura e della pittura rimase immutato … C’erano, è vero, varie scuole che polemizzavano sul significato di “bellezza” … Ma queste polemiche non devono farci dimenticare quante affinità legavano tra di loro gli antagonisti, e anche gli artisti di cui essi si facevano paladini» (Gombrich, ivi: p. 471).
La contrapposizione di cui parla il Gombrich è tra i “naturalisti”, come il Caravaggio o i fiamminghi, e gli “idealisti” come Raffaello, Carracci, Reni o Reynolds: tutti infatti ammiravano “l’insuperata bellezza delle opere dell’antichità”. La musica classica è musica di chiesa (si pensi a Bach) o per i salotti dei nobili. Gli architetti costruivano ville palladiane, che imitavano gli antichi classici, da tutti considerato lo stile “giusto”.
Verso la fine del Settecento, Horace Walpol, un grande eccentrico, ebbe l’idea di farsi costruire una residenza di campagna che imitava il gotico invece del rinascimento palladiano. Sebbene il neogotico si diffondesse molto in Inghilterra (soprattutto nelle campagne dei dintorni di Londra), si venne riscoprendo nel contempo la complessità degli stili dell’antica Grecia, per esempio il dorico del Partenone, e così si diffuse anche uno stile “neoclassico”. Con Napoleone questo diventò lo “stile impero”, ma fu soprattutto l’affermazione del romanticismo che, dubitando del potere della ragione per riformare il mondo, ispirò nei primi dell’Ottocento diversi gruppi di artisti verso nuovi orientamenti che si distaccavano nettamente dall’idea “canonica” di arte.
§Promosse dalle corti, erano infatti sorte diverse Accademie che stabilivano cosa fosse espressione artistica e cosa non lo fosse.
Non solo con l’insegnamento, ma più ancora organizzando delle mostre per dichiarare il successo di questo o quell’artista. In questo modo, sotto il patronato reale, esse stabilirono un canone stilistico che imitava pedissequamente i grandi maestri del passato (all’incirca nello stesso periodo, promossa da A. G. Baumgarten e successivamente da E. Kant, emerse una disciplina filosofica che si chiamava estetica). Così, invece di lavorare per un mecenate di cui si potevano facilmente individuare i gusti o per un pubblico generico, «gli artisti dovevano ora cercare il successo in una mostra dove c’era sempre il pericolo che le opere spettacolari e pretenziose mettessero in ombra quelle semplici e sincere …
Perciò non stupisce che molti pittori e scultori genuini disprezzassero l’arte “ufficiale” delle accademie» (Gombrich, ivi: p. 478).
Nel 1832 Théophile Gautier nella prefazione a Mademoiselle de Maupin propose il principio teorico de l’art pour l’art secondo il quale «l’arte è disinteressata (non ha alcuno scopo utile): è lei stessa il suo proprio fine. Non c’è nulla di veramente bello salvo quello che non può servire a niente; tutto ciò che è utile è sozzo». L’arte deve essere indipendente tanto dalla morale quanto dalla politica. L’artista non conosce che un culto: quello della bellezza.
È un punto di svolta sotto diversi profili, anche perché riguarda pure la letteratura (da Dumas a Balzac, da Stendhal a Dickens) e la poesia. Il termine di art pur l’art definisce molto bene cosa sia “l’Arte” nella società propriamente moderna, quella che si afferma con la rivoluzione industriale, che, partendo dall’Inghilterra intorno al 1750, si espande in gran parte dell’Europa, soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento.
Questa immane trasformazione sociale non soltanto comporta la progressiva, ma tutto sommato veloce, scomparsa dei ceti, ma anche il rapido emergere sia del proletariato industriale sia delle classi medie, e con ciò una gigantesca quanto impensabile urbanizzazione. Ma con questo anche l’artigianato tese a scomparire, mentre nel contempo si andò creando un nuovo tipo di pubblico di massa, soprattutto in città come Parigi e Londra, che non aveva niente a che fare con l’aristocrazia (ma neppure con l’alta borghesia che imitava gli aristocratici).
È questo nuovo pubblico, che in massa frequenta nuovi spettacoli come il vaudeville (una sorta di commedia musicale), il melodramma (una tragedia in veste popolare) e le pantomime (a sfondo storico). In pittura si affermano prima il “naturalismo” poi il “realismo”.
Hanno una grande diffusione i “feuilletons” (romanzi d’appendice a puntate) che decretano il successo e le fortune di Balzac, Sue e Dumas. Parigi diventa il centro europeo di tutte queste forme letterarie e artistiche popolari, ma anche il centro di attrazione di artisti che vi arrivano da tutto l’Occidente (inclusa l’America), ed è soprattutto tra questi che prende piede l’art pur l’art. Baudelaire dedica a Gautier Les fleurs du mal. Nel 1857 viene pubblicata sulla rivista L’Artiste una sua raccolta di poesie con una parte finale che costituisce una sorta di Manifesto de l’art pur l’art.
Nonostante la sua spiccata tendenza alla “dottrina” (la “teoria materialistica della conoscenza”), Parigi, Capitale del XIX Secolo (Einaudi, 1986) di Walter Benjamin è a volte una descrizione assai ficcante della vita parigina del tempo, con il gran numero di flâneur (i famosi perdigiorno – intellettuali e artisti di ogni specie e provenienza – poi chiamati bohémien), le molte costruzioni in ferro (a iniziare dai passages o gallerie), le esposizioni universali (la Tour Eiffel), l’architettura degli intérieurs e quella delle case e delle grandi strade costruite da Haussmann, i falansteri di Fourier e le teorie socialiste di Saint-Simon, il sindacalismo rivoluzionario di un Sorel o di un Blanqui, i feuilletons, i “poeti maledetti” e i vaudeville, ma anche la ferrovia, la fotografia, gli automi, i lungo Senna e i boulevard, le prostitute, il collezionismo, la pubblicità influenzata dalla scoperta delle stampe giapponesi (evidente in Toulouse-Lautrec), i quadri altamente innovativi di Van Gogh e Gauguin. Una forma di vita e un “clima culturale” tipicamente parigini, che Benjamin chiama efficacemente “fantasmagoria”, ma che curiosamente non ricollega al romanticismo, sottolineandone invece il loro carattere “alienato” (in senso marxiano).
La cosa curiosa è che, come accennato, la Francia avvia una vera industrializzazione solo intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, ma Parigi è diventata un polo di attrazione internazionale (un’eredità della magnificenza della corte di Versailles?), soprattutto per intellettuali e artisti dagli anni Trenta, da quando in essa si manifestarono le prime efficaci ribellioni contro tutte le Accademie.
I sociologi (e ancor meno i filosofi di estetica) non hanno colto che probabilmente si è trattato di uno dei primi movimenti sociali della modernità, che per molti aspetti anticipava il movimento operaio e quelli giovanili degli anni Sessanta del Novecento.
Probabilmente perché questi flâneurs tendevano a non avere una vera posizione politica. Erano essenzialmente concentrati sulle loro avventure artistiche e i loro circoli di perdigiorno, anche se in Italia molti futuristi (ma siamo già ai primi del Novecento) furono vicini al fascismo.
È in questo “clima culturale” che, pur nelle sue diverse varianti, si protrarrà fino alla Prima guerra mondiale e oltre, pittori come Manet, Monet, Degas, Renoir, Cézanne, Seurat, Chagall, Klee, De Chirico, Boccioni, Modigliani, Dalì, Mondrian e Picasso si affermarono anche presso il grande pubblico. All’incirca nello stesso periodo venne fondata la Bauhaus, una scuola di architettura che sosteneva uno stretto collegamento tra arte e tecnica (poi chiusa dai nazisti). Nel frattempo erano comparsi “cubismo” e “astrattismo”. Sembra che Picasso abbia detto: «Tutti vogliono capire l’arte. Perché non tentare di capire il canto di un uccello?».
Mi pare che questa sia una frase che illustri assai bene cosa si debba intendere per art pur l’art, un’idea che si ufficializzerà definitivamente con l’affermazione, sanzionata dai critici d’arte, delle “avanguardie” inclusi il Kitsch e la “pop art” (C. Reenberg, Arte e cultura. Saggi critici, Alemandi, 1991).
Ecco la frase di Hauser:
«Da Saint-Simon fino a Auguste Comte, i socialisti e i filosofi sociali hanno l’occhio fisso a quella che era stata l’ambizione dei romantici: tutti vorrebbero sostituire alla Chiesa medievale, come forma “organica”, sintetica, un nuovo ordine, una nuova organizzazione sociale, realizzando la nuova “cristianità” con l’aiuto dei poeti e degli artisti»(Storia sociale dell’arte, II, p. 248).
Anche se si dovette aspettare sino alla fine della Seconda guerra mondiale, si stava assistendo a una svolta nell’arte paragonabile ai cambiamenti di paradigma nelle scienze, come quando si passò dalla fisica deterministica di Newton alla fisica quantistica, e di cui ha parlato Thomas S. Kuhn paragonando questo passaggio a un’autentica rivoluzione.
In questo quadro possiamo e dobbiamo chiederci: qual è la funzione dell’arte in una società che è strutturalmente differenziata per sistemi di funzioni? Se la fisica risponde (sperimentalmente) soltanto alla scienza così come l’economia risponde soltanto a criteri di efficienza/efficacia monetaria (e quindi al successo o meno sui mercati concorrenziali), a “cosa” e a “chi” risponde il sistema dell’arte? Nelle società libere non certo a criteri di propaganda imposti dallo Stato, ma neppure ad Accademie Ufficiali o un pubblico preformato in base a criteri aristocratici e neppure di “classe” (come si diceva una volta).
Forse si potrebbe dire che anche in questo caso è il “mercato” che decide. Ma che tipo di mercato?
C’è un mercato che decide cosa è bello e cosa è invece brutto, oggi che il mercato è diventato mondiale?
Come fa un miliardario a decidere cosa comprare? Non esistono più storie dell’arte delle singole nazioni.
Proprio perché l’arte vera richiede ingenti somme non basta avere danaro, tanto più che le opere divenute famose sono assai difficili da trovare sul mercato. Chi trova più un quadro di Picasso o di Braque del periodo cubista? Hauser si pose una domanda simile alla nostre quando scrisse:
«l’arte è fine e meta a se stessa o semplicemente mezzo per raggiungere dei fini al di là dell’arte?» (Sociologia dell’arte, Einaudi, 1977, vol. I, p. 345).
La risposta l’aveva già data l’art pur l’art, ossia che l’arte non ha e non può avere “fini al di là dell’arte”, altrimenti sarebbe come tornare alla società aristocratica, l’arte non sarebbe un autonomo sistema di funzione. La sua inter-dipendenza con gli altri sistemi – per esempio l’economia – non ci sarebbe se non fosse altrettanto autonomo nella stabilire cosa sia arte oppure no. Sarebbe come se un chirurgo o un insegnante si facessero dire dall’economia come operare un paziente o cosa dire allo studente.
A maggior ragione un artista che non può non tenere conto della storia dell’arte se vuole essere un “creatore”, ed è quindi necessariamente indotto a vedere questa storia sotto la prospettiva particolare di questo sistema autonomo, che non può farsi dire dagli altri cosa sia artisticamente valido, o brutto, o banale.
E questo anche quando la gran massa del pubblico decreta che questa o quell’opera moderna non valga nulla. Altrimenti tanto la storia o la sociologia dell’arte non sarebbero discipline a sé e l’arte sarebbe solo propaganda nelle mani di chi detiene il potere (come ha ben insegnato l’esperienza sovietica e di tutte le altre dittature).
Gli specialisti di arte (dai pittori e scultori ai critici e architetti di professione sino alle gallerie, musei e istituzioni culturali) sono costretti a distinguersi nettamente dal mero consumo di massa, ma anche da ciò che è già stato fatto. Certo, è un processo tortuoso, per prova ed errore, ma chi decide deve comunque avere solide credenziali di esperto d’arte e questo non dipende dal denaro, né quello suo, né tanto meno quello di un possibile cliente. Tanto più che ognuno ha una reputazione da difendere. Le truffe sono sempre possibili, ma il professionista deve preservare la sua reputazione anche quando sbaglia, dimostrando che si era appunto sbagliato. Anche gli intellettuali diventano, per usare un termine di Robert Dahl, una “oligarchia competitiva”.
Oligarchia, perché sono sempre una piccola minoranza; competitiva, perché si sorvegliano reciprocamente sulla base di criteri loro propri ma di dominio pubblico. Si potrebbe anche dire così: l’arte sviluppa sempre più autonomia dal contesto sociale, perché al suo interno si consolida un modo di osservarsi che, proprio in quanto arte, le nega di cogliersi come forma di espressione religiosa, oppure di orientamento politico, scientifico o economico. Il “gusto” riferito all’arte, e di cui si inizia a parlare dalla metà del Seicento, non è più questione che possa distinguere il “vero bello”, come nei tempi dell’aristocrazia, tanto meno se è la politica o qualche altro esterno che si intromette.
Ma questo, nella “società aperta” è vero anche per i salotti della grande borghesia del XX secolo, e per la semplice ragione che l’offerta di opere supera di gran lungo la domanda e non lavora più per committenti o mecenati e tanto meno per Accademie.
In questo senso l’arte è un sistema che si distingue in modo particolare da tutti gli altri sistemi di funzione. La spinta a una continua innovazione, che deve tenere conto della sua storia, porta infatti l’art pur art a un paradosso che non vede, a divenire l’art sur l’art, ossia un’arte che, nello sforzo estenuante di distinguersi da opere tanto del passato quanto del presente, non solo di fatto si destoricizza, ma arriva a pretendere di trasformare persino i rifiuti in opere d’arte.
L’estetica mette tutto questo dentro il grande calderone del “postmoderno”. «L’estetica filosofica dopo Hegel ha avuto serie difficoltà a concepire le conseguenze semantiche della differenziazione dell’arte … Da un lato pretese sovradimensionate, che non possono omettere nulla, nemmeno la non arte; dall’altro un milieu particolare … che si occupa soprattutto di se stesso e protesta continuamente contro la propria storia» (N. Luhmann, L’arte della società, Mimesis, 2017, pp. 317).
Nel rincorrere se stessa, l’arte come tale sfugge sempre ad ogni domanda sul perché e il come, comprese quelle della filosofia estetica. Forse siamo arrivati alla “morte dell’arte” (come aveva sentenziato Hegel), ma in ogni caso si tratta di una “morte” che è tale solo ed esclusivamente per osservatori ad essa esterni. L’arte riflette solo su se stessa, elabora se stessa infischiandosene del contesto sociale.
Oggi siamo distanti anni luce dalla Francia dell’Ottocento, sia quella dei romantici sia quella dei flâneur o bohémien, nonostante sia stata proprio lei ad aprire le porte all’arte fine a se stessa.
Nicolò Addario
(Prof.re ordinario di Sociologia generale,
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)
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